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La lingua ai tempi della globalizzazione

La lingua ai tempi della globalizzazione 

Gli scrittori che arrivano in Italia usano la nostra lingua, i nostri usano l’inglese

di Lidia Saija

In questo articolo di Paolo di Paolo e Igiaba Scego, apparso su “Internazionale” a febbraio (www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/2015/02/02/l-occasione-perduta-della-lingua-italiana), si esprime una forte preoccupazione sul fatto che in Italia manchi un serio investimento sulla lingua.

I «dati presentati alla settimana della lingua italiana nel mondo qualche mese fa erano confortanti: l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, cresce l’interesse e la richiesta anche legata esclusivamente alla “passione”», scrivono i due. Ma l'interesse verso la nostra lingua è affidata agli altri, a quanto pare, e questo li lascia sorpresi e disarmati.

Sono gli scrittori che arrivano in Italia da altri Paesi a voler scrivere i loro libri in italiano, dopo un'esperienza di migrazione e un processo di avvicinamento alla lingua del Paese di approdo, che va dalla necessità di cavarsela nella vita quotidiana alla possibilità di esprimere il proprio io in divenire, con l'uso di un codice linguistico che mischia passato e presente. E questo, indubbiamente, crea contaminazioni che valorizzano l'italiano.

Mentre registi e scrittori italiani cominciano ad abbandonare la lingua madre e a scrivere in inglese, a girare film negli Stati Uniti. Una questione di vantaggi di produzione, distribuzione, platee, di mercato più ampio.

 

Ma io non credo sia solo per questo. L'esperienza di chi sta facendo questa scelta è, con tutte le cautele del caso, paragonabile a chi, arrivato in Italia, ha sentito il bisogno di comunicare ciò che sentono in italiano. Sono persone che, per curiosità, per cercare nuovi stimoli, si sono spostati altrove, alla ricerca di nuovi linguaggi e li hanno trovati. Li stanno sfruttando, secondo quanto è stata ed è la loro esperienza di migrazione e il loro percorso di crescita personale e professionale. Cosa c'è di strano in questo? Che l'interesse verso la lingua “della dolce vita” sia affidata per lo più agli altri, è poi così preoccupante? Bisogna forse esplorare il diverso per tornare a guardare al conosciuto (alla lingua con la quale si è cresciuti e all'utilizzo della quale si è stati socializzati) con occhi diversi. 

 

E, forse, proprio allora ci si renderà conto dei pregi (oltre che dei difetti) di una lingua apprezzata da altri, la nostra, una lingua che potrà farsi contaminare, magari, anche grazie all'esperienza di chi l'ha abbandonata per un po’, e non solo grazie all'esperienza di chi, arrivando da altrove, l'ha elaborata e fatta propria. La lingua è una costruzione sociale e dalla società dipende, se questa cambia, cambia anche quella e lo abbiamo già ampiamente sperimentato nel tempo. Io trovo che sia una cosa affascinante, e che il pensarci e il parlarne sia doveroso e utile. Resta poi da riflettere su quello che, al contrario, la lingua e il suo utilizzo, può fare sulla società. Ma questo è un altro discorso.