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Perché io sì e loro no? Io nata dalla parte giusta del mondo.

Perché io sì e loro no?
Io nata dalla parte giusta del mondo.

di Gracy Pelacani

Capita spesso di accorgersi dell'esistenza di qualcosa solo quando, senza preavviso, questa si impone alla nostra visuale, blocca il nostro passaggio, impedisce l'ordinato svolgersi degli eventi così come noi l'avevamo immaginato. Non la possiamo più ignorare, ed ecco allora che, non senza sforzo, l'accogliamo tra il possibile, tra gli eventi che possono entrare a far parte delle nostre vite e, chi può dirlo, magari modificarne in parte il corso.

È mattina presto. Sono seduta al tavolo di casa mia. Mentre faccio colazione, indosso le cuffie ed ascolto il giornale-radio del mattino. Trasmettono in diretta lo sgombero della frontiera di Ventimiglia. Come sottofondo alla voce del giornalista le urla delle centinaia di persone che, dopo giorni in attesa alla frontiera, vengono ora caricate su autobus per essere portate altrove. Chi sono, perché sono qui, da dove vengono, che cosa vogliono fare, ma non lo sanno che non si può attraversare una frontiera così, senza spiegazioni?

È ora di cena. Sono seduta al tavolo di casa mia. Metto in tavola ed accendo la televisione. Trasmettono dalla stazione di Milano centrale, poi da quella di Roma Tiburtina. Le immagini che scorrono, però, cambiano poco. Si avvicendano visi su visi, alcuni sorridono, molti paiono stanchi, altri stremati. Chi sono, perché sono qui, da dove vengono, che cosa vogliono fare, ma non lo sanno che non si può attraversare una frontiera così, senza spiegazioni?

 

In principio sembrava non si riuscisse a comprendere nemmeno come fosse accaduto. Come se si fosse inceppato qualcosa, e d'improvviso, a metà giugno, uomini, donne e bambini dal nulla affollavano stazioni e frontiere. Si imponevano allo sguardo ed ai pensieri. Per il tempo del telegiornale.

Mi chiedo spesso se noi, quelli fortunati nati dalla parte giusta del mondo, o a cui hanno riconosciuto il diritto di rimanerci, possiamo davvero, e in che modo, provare a comprendere. Almeno un poco.

Capire no, sentirsi come se capitasse a noi, davvero no, questo non mi pare possibile.

Sarebbe stato un giorno di attraversamento di confini, lo sapevo bene, ma non mi sembrava un evento eccezionale. Ero immersa nella lettura del mio libro, e trovavo la storia così appassionante che nemmeno mi accorsi di aver passato la prima frontiera. Del giungere del secondo confine che avrei attraversato quel giorno mi resi conto solo vagamente, quando sentii l'autobus rallentare, ma continuai a leggere senza darci molta importanza. Alzai la testa solo quando la guardia di frontiera giunse a pochi passi da me e disse con voce seria: “Documenti”. Aprii la borsa in fretta, presi il passaporto, glielo porsi. Scorse velocemente solo le prime pagine, verificò che io fossi io, o almeno che assomigliassi alla ragazza della foto, lo richiuse e me lo restituì. Non durò più di trenta secondi. Potevo passare il confine, continuare a leggere, tornare a casa, continuare la mia ricerca della felicità. Nessuno mi avrebbe chiesto più nulla, non dovevo spiegazioni.

C'è stato sì, un momento, in cui in mano avevamo solo un biglietto di andata, ed ogni cosa che ci apparteneva era stata venduta, a parte quello che si trovava nelle tre valigie che ci circondavano. Non avevamo una casa in cui tornare, e per un po’ non ne avremmo nemmeno avuta una solo nostra in cui abitare. Lasciavamo un'afosa estate per un inverno grigio, nebbioso e freddo. La nostra lingua per un'altra che ancora non capivamo, il nostro cibo per un altro che non sapevamo ancora come preparare. C'è stato un momento in cui al rimanere dove molto era conosciuto ed amato, abbiamo preferito l'ignoto ma, forse, migliore. Salvo poi capire che il migliore immaginato prima della partenza, non sempre rimane lo stesso dopo l'arrivo.

Era il 1992, ed avrei di lì a poco compiuto sei anni.

 

Eppure, so di non poter capire quel che vedo, quel che ascolto. Perché, ancora una volta, un'altra seria e diversa guardia di frontiera avrebbe solo controllato che la me di ventidue anni fa corrispondesse alla foto che si trovava nel passaporto, poche pagine dopo la foto di mia madre. Non mi avrebbero chiesto perché ero lì, e quanto ci volevo restare. Mi avrebbe detto, invece, benvenuta, bentornata. Io, entravo da cittadina. Senza aver fatto nulla di speciale, a dire il vero. Solo mio nonno era nato dalla parte giusta del mondo, anche se lui non lo poteva sapere, perché quando ci stava lui era la parte sbagliata, e se n'era andato per non morirci senza aver prima provato a trovare la sua definizione di vita migliore.
È un'ora qualsiasi del giorno e sono seduta al tavolo della cucina di casa mia. Torno a quelle voci e a quelle immagini. E penso che dovrei, almeno, salire sul treno, andare fino alla frontiera più vicina, al Brennero, vedere se posso aiutare, dare una mano. Qualcosa da fare, qualcosa che si può fare c'è sempre. Non risolve ma aiuta. Eppure non mi muovo, e rimango seduta al tavolo di casa mia. Mi manca il coraggio. Se qualcuno mi dovesse chiedere, penso, perché io sì e loro no, non saprei che cosa rispondere.