«Con gli anni ho capito che il signor Zacchigna non era un tipo malvagio, al contrario. Non è da tutti affittare le case agli extracomunitari. Molta gente non si fida. Pensano che il passatempo preferito degli immigrati sia distruggere le dimore per poi scappare via senza pagare l’affitto».
Questa una delle frasi che si incrociano nelle pagine di apertura del primo romanzo di Laila Wadia, scrittrice indiana che vive e lavora a Trieste e che da qualche anno ha iniziato a dedicarsi alla composizione in lingua italiana.
In Amiche per la pelle Wadia fornisce uno spaccato piuttosto realistico di quella che è la condizione di una famiglia tipo immigrata in Italia da poco, dipinta attraverso gli occhi di una giovane donna indiana che con ironia e falsa innocenza documenta una serie infinita – ed in continua evoluzione – di stereotipi e pregiudizi.
La parabola che viene descritta in trentasette brevi ma incalzanti capitoli vede come protagoniste quattro famiglie – indiana, cinese, bosniaca ed albanese – che vivono in una alquanto fatiscente palazzina di Trieste, che ospita anche un anziano e burbero signore italiano. Se si esclude l’happy end a sorpresa, il romanzo potrebbe essere considerato una trasposizione letteraria di tutti i problemi e le difficoltà che affliggono le famiglie immigrate: dallo sfruttamento lavorativo imposto alle mansioni scarsamente qualificate offerte, dal difficile apprendimento della lingua italiana – soprattutto quella della burocrazia – al problema della casa. Di fatto, la spada di Damocle che pende su queste quattro famiglie riguarda proprio quest’ultimo punto, l’abitazione, che, in seguito alla morte del proprietario ed alla vendita dell’intero stabile decisa dall’erede, i nostri si trovano costretti ad abbandonare.
La vicenda si apre dalla fine, attraverso la descrizione di un senso di minaccia e preoccupazione che pesa sui protagonisti ma di cui si comprende la causa solo nelle ultime pagine del romanzo; la narrazione procede dunque al contrario, ricostruendo le vicende dal loro epilogo e ricongiungendo l’apertura con la chiusura.
L’ironia rimane una delle note peculiari del testo, come anche di tutta l’opera di Wadia, che in quanto immigrata è forse più attenta e sensibile a situazioni, atteggiamenti e anche modi di dire che prendono di mira, appunto, gli immigrati. Un altro esempio per tutti: ciò che l’anziano triestino non fa altro che ripetere è che i suoi fastidiosissimi coinquilini non sono altro che un «un branco di “negri”». Il fatto che nessuno di loro fosse scuro di pelle, scrive l’autrice, non aveva alcuna importanza.
È interessante osservare come dalla descrizione di situazioni di palese razzismo e discriminazione l’autrice riesca a far sorridere il lettore, mantenendo sempre quel sottile equilibrio tra denuncia, indignazione e humour.
Una ulteriore strategia che spesso si nota nel romanzo riguarda il rovesciamento della prospettiva, che da sempre caratterizza molta della letteratura prodotta da persone immigrate nel nostro paese e che anche in questo caso trova riscontro: «quasi otto anni dopo il mio arrivo in questa città, sono ancora allo stadio del semi-stupore. I triestini mi guardano e io guardo loro con mutuo interesse misto a sospetto. Loro mi domandano sempre cosa significa il puntino rosso che porto sulla fronte, e io non so rispondergli. Io gli domando perché un paio di scarpe costa più di un frigorifero o perché frotte di ottantenni affollano l’autobus alle otto di mattina, e loro non sanno cosa ribattere. Loro mi chiedono se è vero che in India ci sono i serpenti per strada, e come può convivere nello stesso paese gente tanto ricca e tanto povera. Io gli domando se è vero che bisogna indossare scarpe speciali con le suole piene di chiodi quando nevica, e come può convivere nello stesso paese gente tanto ricca e povera». In questo passo emerge quel punto di vista che generalmente non ha mai voce, quello di coloro che di solito sono oggetto di rappresentazione e non soggetto e che in questo caso, in modo innocente ma non ingenuo, prendono la parola e mettono in discussione assetti stereotipati.
Infine, un’altra nota che attraversa tutta la narrazione è la voce delle donne, protagoniste della storia che a loro è intitolata, attraverso quel gioco di parole che vede il riferimento sia metaforico che letterale alla pelle.
Un romanzo, questo di Wadia, che si legge tutto d’un fiato e che attraverso lo strumento dell’ironia e del rovesciamento della prospettiva non esita a denunciare la condizione degli immigrati e le contraddizioni della nostra società.
Il romanzo chiude il ciclo di puntate radiofoniche del programma Cammei. In onda il 26 giugno alle ore 16.00 sulle frequenze della Rai regionale.