Difficile scrivere dell’ultimo romanzo di Bijian Zarmandili, autore iraniano da anni residente in Italia. E’ un testo che accanto a squarci inattesi di speranza e di vita affianca solitudine e disperazione, su uno sfondo che, sebbene finzionale, riecheggia rapporti di politica internazionale di grande attualità. La storia si suddivide in due ambientazioni antitetiche l'una all'altra, la prima nella immaginaria città di Katapolis, in Oriente, e la seconda in un’anonima isola italiana, abitata da pochi pescatori. In mezzo, un personaggio senza nome, lo shahid, colui che viene arruolato per condurre la jihad contro il Nemico. Con simili premesse ci si aspetterebbe il “solito” romanzo che cavalca la retorica tanto inflazionata quanto deleteria dello scontro di civiltà, con il rischio di una indigestione di stereotipi, spesso inferiorizzanti nei confronti di tutto ciò che non è Occidente. Invece la questione è molto più complessa e Zarmandili ci aiuta a guardarla dall’interno, illustrando in modo efficace situazioni e sfumature. C’è una storia d’amore, tanto surreale quanto profonda, tra Anna, una giovane isolana e lo straniero che arriva sull’isola, in attesa di ordini per compiere la missione suicida. Una storia d’amore che si srotola nella totale assenza di comunicazione verbale, dal momento che non esiste un codice linguistico comune tra i due giovani, che, però, superano le barriere tradizionali della comunicazione capendosi da subito. Si tratta di due solitudini che si incontrano: quella di Anna, rimasta precocemente senza genitori, e quella dello straniero, lo shahid. Zarmandili riesce a mostrare al lettore che cosa si può celare dietro una persona a tal punto segnata dalla vita da divenire oggetto manovrato da altri, che perseguono i loro materialissimi scopi strumentalizzando la religione e le persone che non hanno più nulla da perdere, come appunto il protagonista di questo romanzo. Non vi è rabbia in lui, solo rassegnazione, amarezza e la consapevolezza di aver perso tutto, anche il nome, che non viene mai pronunciato. Vi sono squarci nel testo in cui il lettore si affaccia sulla vita di ragazzi in Afghanistan che giocano a pallone su un campo sterrato e che poi le bombe piovute dal cielo cancellano. Dopo quel fatto, lo shahid non ha parlato per giorni, è finito in un campo profughi dove è iniziato il suo addestramento contro il Nemico. Ricorda il bambino in Terra e cenere di Atiq Rahimi che nei bombardamenti in Afghanistan ha perduto, oltre che la famiglia, anche l'udito. Anche se può sembrare un automa disumanizzato – perché chiunque con esperienze simili alle spalle rischierebbe di smarrire la propria umanità – tuttavia scopre, sull’isola, lo struggente desiderio di una relazione, di essere ancora importante per qualcuno. Il romanzo raffigura, in un certo senso, il percorso di quest’uomo, la cui infanzia (o, meglio, la fine dell'infanzia) riaffiora per flashback. Un ragazzo come tanti altri, all’inizio, a cui la guerra ha portato via tutto, anche la voglia di vivere. I fili della sua esistenza, come quella di molti altri dannati della terra, sono mossi da altolocati personaggi avidi e spietati. Il romanzo mostra la complessità e la stratificazione di ragioni e interessi che muovono i governanti ed i militari di Katapolis, nella sua guerra di fatto praticata contro il Nemico ma ufficialmente biasimata e condannata. Il rapporto con il Nemico è più articolato di quanto sembri, si fonda su esigenze di rivendicazione dei torti subiti da secoli, ma anche sull’invidia di non possedere quanto il Nemico possiede. L’obiettivo, come in maniera molto lucida affermerà un personaggio in chiusura di romanzo, non è sopprimere il Nemico, ma inglobarlo, appropriarsi del suo sistema: “Sto solo cercando di dirle che bisogna intedersi sul modo di colpire il cuore del Nemico: quello che regola e gestisce le menti di milioni di persone, che li induce a comportarsi in questa o in quella maniera, che indirizza desideri e aspettative, che unisce, controlla e manipola una molteplicità di popoli e nazioni, compresi i suoi e i miei. Del resto, lei, io, non abbiamo un sistema, un modello alternativo al nostro Nemico. Alziamo la bandiera della religione, ma sappiamo che governiamo e governeremo l’economia, la finanza, le ricchezze delle nostre nazioni con lo stesso modello e con lo stesso sistema di coloro che vogliamo combattere. Siamo simili al Nemico.” (p.249). Il desiderio di potere e di controllo di beni e persone non sembra avere un colore della pelle diverso, e le scuse di matrice religiosa o culturalista restano, appunto, delle giustificazioni necessarie a coprire ben altre ragioni.