Tornano i temi centrali della scrittura di
Božidar Stanišić in questo suo nuovo lavoro, di ampio respiro: i tempi in cui si viveva "là"; il senso della vita da 'profugo' con le sue difficoltà psicologiche prima che materiali; le ripercussioni nella vita di una famiglia, genitori e figli che vivono l'esilio in modo così diverso da non capirsi più, lingua e cultura d'origine offuscate dal tempo e dalla lontananza; le riflessioni politiche e le convinzioni culturali nei discorsi e nelle aspettative di comuni cittadini, foglie travolte dalla Storia. L'imperativo a scrivere e testimoniare.
È il primo romanzo di
Stanišić dopo anni di racconti intensi e di poesie luminose.
La voce narrante, con intuizione felice, è una giovane donna, arrivata bambina in Italia con i genitori e un fratellino, poco prima della guerra che ha distrutto il sogno del grande paese Ex.
Nella prima parte, ai dolori personali di un suo amore finito ("in me ticchettava un unico pernsiero, senza sosta, come il meccanismo dlele vecchie sveglie: Stefano-è -un- posto- vuoto, tic-tac, tic-tac") si mescolano i ricordi di "là" ("Tu resterai senza monopattino, così come io sono rimasta senza la bicicletta", la ammoniva una piccola amica della prima infanzia, già esperta dell'esilio, "perchè anche da voi 'scoppierà'. Ah, quando scoppia per i misti non c'è posto.").
Il lutto dei distacchi e della lontananza fa capire meglio i dolori nella vita delle persone amiche "Nemmeno per lei [ora che è rimasta vedova] niente è com'era una volta".
La madre è una figura di rilievo, spesso muta, si esprime nettamente anche solo con un alzar di sopracciglio, uno sguardo fisso al soffitto, un cenno della mano, coi suoi sospiri e silenzi, con la bocca che è solo una linea, ma gli occhi parlano, che cerca di capire/mediare, che interviene per calmare le discussioni, "basta, smettetela", per deviare l'attenzione dai ricordi tristi, "È domenica, pensiamo a cose più allegre!" Che diventa "tutta occhi, trepidanti e inumiditi, più verdi di prima" di fronte alle domande impudiche di un'intervista che sottolinea differenza ed estraneità.
Il padre, nuovamente migrato, per lavoro, in Transilvania, a volte sembra non ricordare le ingiustizie di 'là', mentre ha sempre osservazioni pungenti per gli effetti della globalizzazione, per ristabilire la realtà dei fatti, attento alle sfumature e agli atteggiamenti, riscopre "all'improvviso Marx che in Bosnia era addormentato", ma non ha gran fiducia negli esseri umani, ovunque siano nati e anche se 'fanno i buoni'.
Il fratello minore, prima bambino inconsapevole di quanto succede, che solo pretende i suoi sandali con le cinghiette luminose, poi adulto nel nuovo paese, ormai il suo, è tutto teso alla conquista del successo. "Ma esiste il successo, quello vero, senza un successo del conto in banca?" Anima irriverente il figlio maschio che mette in forse le certezze dei genitori (il valore supremo dei libri, della cultura, dello studio) e colpisce nel vivo la sorella. È lui a chiamarla giraffa per il suo collo lungo, offesa dolorosa finchè la linea del collo non viene magnificata da un innamorato; è sempre lui a smascherare il suo desiderio di successo, analogo al suo anche se si muove in ambito diverso.
Oltre alla famiglia nel romanzo appaiono diverse figure con un loro spessore, interessanti e vitali, dagli amori italiano e americano della figlia, alle ragazze del figlio, agli amici, la donna italiana che li ospita, il compagno di lavoro del padre. Persone che vivono anche nei sogni, personaggi veri che riappaiono dal passato e prefigurano il futuro
Tra i paesaggi domina su tutti il Campo, il casermone per i profughi, con le sue "stanze" dalle pareti 'mobili', che ondeggiano ad ogni tocco. Di fronte a quelle lenzuola che dividono le vecchie camerate, le volontarie (ben intenzionate? annoiate della propria vita?), voltano la testa. O perlomeno così le vede il padre.
Torna alla mente il Silos di Trieste letto in "Verde Acqua" di Marisa Madieri, gli altri campi visti in
"Palacinche. Storia di un'esule fiumana", fumetto e storia di Caterina Sansone e Alessandro Tota.
Mentre i genitori sono sempre sospesi, in modo doloroso e inevitabilmente, verso il loro "là" di un tempo, per i figli l'Italia è il loro paese, dell'altro non conoscono nemmeno più la lingua. Importante e continua questa attenzione alla lingua materna, accarezzata quasi in ogni capitolo. È la madre che ad ogni piè sospinto fa riemergere modi di dire, parole, espressioni e le comunica, le assapora nel desiderio di condividerle con i figli, anche se loro sono distratti e lontani. Quella lingua che era strumento di divisione nel paese d'origine, "che in Bosnia ciascuna delle tre etnie chiama con un proprio nome". Per i figli diventa sempre più difficile usarla, nonostante la fatica dei genitori che tentano di mantenerla in vita; anche se appaiono libri degli scrittori di là, loro si ostinano a parlare solo italiano. I genitori possono tornare in visita, ma i figli restano a Udine. "La nostra casa è qui!, così abbiamo risposto alla loro domanda perchè non andiamo 'là' insieme a loro."
La seconda parte vede la giovane protagonista, ricercatrice, al lavoro negli Stati Uniti, la grande macchina che aspira intelligenze da tutto il mondo. Ha un nuovo compagno, non più forse un amore, molte nuove perplessità sul suo progetto di ricerca. È lei che scrive, che annota, anno dopo anno, in infiniti quaderni, a partire dalla terza liceo, fatti e riflessioni, "Se tu dimentichi il notes ricorda", e queste note si aggiungono alle registrazioni dei dialoghi delle persone, fatte anche di nascosto con un vecchio minuscolo dittafono.
Tanti sassolini messi in ordine sul tavolo del tempo, granelli di sabbia per ricostruire la memoria delle vite; pensieri per ribadire convinzioni profonde. "Stranieri? " si stupisce Marta. "Nessuno dovrebbe sentirsi nè straniero nè arrivato illegalmente in un altro stato!"
Prende veste in questa seconda parte la poetica di
Božidar Stanišić a cui fanno riferimento anche gli esergo, questa volta solo due, da Raymond Carver, "Il mestiere di scrivere". Scrivere è un bisogno impellente, un lento e continuo lavoro di analisi a cui non si può per nessun motivo sottrarsi. Scrivere per sè, per capire, per fare chiarezza nella propria vita, indipendentemente dall'esistenza di un lettore, la nostra protagonista nemmeno ci pensa a pubblicare. Scrivere al meglio delle proprie possibilità. Niente a che vedere con l'esibizionismo irrefrenabile di alcuni che si pavoneggiano per lavori di cui hanno fornito solo la traccia ai loro scrittori fantasma e che porta a pubblicare ogni anno un numero inimmaginabile di libri.
Božidar Stanišić non risparmia frecciate in quest'ambito come in quello politico, sparse qua e là, nelle discussioni dei suoi personaggi, come non tace le sue osservazioni sul valore preminente della cultura o in merito all'accoglienza e all'integrazione. I rilievi ai buonisti che con leggerezza inconsapevole pronunciano parole pesanti, escludono e mortificano: "la guerra è finita, allora quando tornate a casa?", la protagonista tace, ma lei in Italia È a casa, da sempre.
Tornano i suoi toni e il ritmo della sua scrittura, i dialoghi fitti e continui che permettono di esprimere sempre diversi punti di vista, le visioni le pause le domande.
Ogni capitolo vede una sorta di intrigante abstract, una 'nuvola' di parole ed espressioni significanti che introducono l'argomento, manifestano l'intenzione di sottolineare alcuni punti rispetto ad altri.
L'epilogo ne è privo, ma qui tutto va a ricongiungersi, a ricostituirsi nell'unità, in qualche modo, perchè è la protagonista stessa ad essere divisa, tra lingue e appartenenze, nostalgie e amori. Il suo 'là', ignorato e taciuto, riemerge e pretende di far parte della complessa filigrana della sua vita. Il suo libro ormai completato esige di essere tradotto nella lingua dei genitori.
Colori tristi o malinconici o felici, per disegnare il passato o rivelare il futuro, vanno ad abbellire la giornata presente.
"Ah, che giornata!"