Notturno, girato nel corso di tre anni sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, racconta la quotidianità che sta dietro la tragedia continua di guerre civili, dittature feroci, invasioni e ingerenze straniere, sino all’apocalisse omicida dell’ISIS. Storie diverse, alle quali la narrazione conferisce un’unità che va al di là delle divisioni geografiche. Tutt’intorno, e dentro le coscienze, segni di violenza e distruzione: ma in primo piano è l’umanità che si ridesta ogni giorno da un “notturno” che pare infinito.
In un mondo sempre più sovrappopolato e in preda ai cambiamenti climatici, il controllo della produzione dei beni alimentari è diventato un enorme business per una manciata di poche gigantesche aziende. Seguendo la filiera di produzione industriale della carne di maiale, dalla Cina al Brasile passando per Stati Uniti e Mozambico, il documentario descrive l’enorme movimento di concentrazione di potere nelle mani di queste ditte, che sta mettendo fuori mercato centinaia di migliaia di piccoli produttori e trasformando in modo permanente paesaggi interi. A partire dai mega-allevamenti intensivi in Cina fino alla foresta amazzonica minacciata dalle coltivazioni di soia sviluppate per nutrire animali confinati in capannoni dall’altra parte del mondo, questo processo sta pregiudicando gli equilibri sociali e ambientali del pianeta.
Costa d’Avorio, fine anni ’70, anni della spensieratezza: Aya, 19 anni, vive a Yopougon, quartiere popolare d’Abidjan. A differenza delle sue due amiche, che non pensano che a divertirsi la notte nei maquis e a sedurre i buoni partiti, Aya preferisce stare a casa a studiare. Attorno a loro si incrociano altri personaggi divertenti come il padre donnaiolo di Aya, il figlio di papà Moussa, le mamme che cercano di proteggere le loro figlie scatenate e Gregoire detto il “parigino”… Film di animazione che nasce da un fumetto divenuto famoso scritto dai registi Marguerite Abouet e Clément Oubrerie.
Costa d’Avorio, fine anni ’70, anni della spensieratezza: Aya, 19 anni, vive a Yopougon, quartiere popolare d’Abidjan. A differenza delle sue due amiche, che non pensano che a divertirsi la notte nei maquis e a sedurre i buoni partiti, Aya preferisce stare a casa a studiare. Attorno a loro si incrociano altri personaggi divertenti come il padre donnaiolo di Aya, il figlio di papà Moussa, le mamme che cercano di proteggere le loro figlie scatenate e Gregoire detto il “parigino”… Film di animazione che nasce da un fumetto divenuto famoso scritto dai registi Marguerite Abouet e Clément Oubrerie.
Giraffada, liberamente ispirato ad eventi realmente accaduti nel 2002 a Qalqilya, racconta una situazione di cattività, quella degli animali dello zoo, come specchio della situazione in cui vivono i palestinesi dei territori occupati. Yacine è il veterinario di uno zoo di Qalqilya, cittadina palestinese a ridosso della West Bank. Vive da solo con il figlio Ziad, un ragazzino che adora gli animali, soprattutto le due giraffe dello zoo, Rita e Brownie. Quando Brownie cade vittima di un bombardamento Rita smette di nutrirsi e Yacine e Ziad devono inventarsi un modo di procurarle un nuovo compagno. Ma entrare e uscire dalla zona controllata dai soldati israeliani è assai difficile, figuriamoci insieme a una giraffa. Giraffada utilizza l'animale "nato da un cammello e da un leopardo" come testimone del desiderio del popolo palestinese di sollevare lo sguardo oltre i muri e le ottusità degli uomini.
Rani Massalha è un regista nato in Francia da padre palestinese e madre egiziana e riesce a ricreare efficacemente il clima di oppressione nei territori occupati, raccontando il "potere magico" di un ragazzino che non si rassegna allo stato delle cose ma continua a sperare (e pregare, al contrario del padre che "non va più alla moschea") in un miracolo.
Adattamento del romanzo di Albert Camus, questo film ripercorre a ritroso le vicende di un personaggio, silenzioso e deciso, che ricerca nel proprio passato anche doloroso le convinzioni che lo hanno portato ad essere ciò che è nel presente. Lo stile del regista è come sempre asciutto ed elegante, evita inutili infarcimenti estetici e si concentra sulla pulizia e sull'efficacia dell'inquadratura. Protagonista è lo scrittore Jean Cormery che ritorna nella sua patria d'origine, l'Algeria, per perorare la sua idea di un paese in cui musulmani e francesi possano vivere in armonia come nativi della stessa terra. Ma negli anni '50 la questione algerina è ben lontana dal risolversi in maniera pacifica. L'uomo approfitta del viaggio per ritrovare sua madre e rivivere la sua giovinezza in un paese difficile ma solare. Insieme a lui lo spettatore ripercorre dunque le vicende dolorose di un bambino il cui padre è morto durante la Prima Guerra Mondiale, la cui famiglia poverissima è retta da una nonna arcigna e dispotica.
Nel 1931 l'Australia ha due problemi principali. Da una parte i conigli, per difendersi dai quali è stata costruita una recinzione che taglia l'intero continente. Dall'altra l'esistenza degli aborigeni, che si pensa di "addomesticare" strappando i più giovani alle famiglie di appartenenza per deportarli in appositi "campi" di rieducazione dove dovranno imparare ad obbedire ai bianchi. Tra le vittime anche Molly, Gracie e Daisy Craig, tre bambine che decidono di fuggire percorrendo 1.500 chilometri per tornare a casa. Nonostante l'accanimento del funzionario predisposto all'attuazione del programma e gli sforzi della guida indigena incaricata di ritrovarle, due su tre ce la faranno. Il film è tratto dal romanzo di Doris Pilkington Garimara, basato su una storia vera. Nota di merito a parte per la fotografia di Christopher Doyle e per la dolente colonna sonora di Peter Gabriel.
Presentato a Torino nella sezione concorso “Doc 2005”, “Manoorè” di Daria Menogozzi è un documentario sul lavoro nell’epoca della globalizzazione attraverso la voce di tre donne sindacaliste Awa, Rita e Catherine provenienti dal Senegal, dal Brasile e dalla Malesya. Queste tre donne si sono incontrate all’OIL, l’Organizzazione Internazionale del lavoro, che ha sede a Torino, dove esponenti del mondo del lavoro, provenienti dai paesi investiti maggiormente dal processo di globalizzazione, si confrontano e discutono. Attraverso la storia di queste tre donne, giunte a Torino per studiare i problemi e le sfide che la globalizzazione pone al mondo del lavoro, il documentario riflette sugli esiti drammatici e sulle conseguenze tragiche che ha la globalizzazione, soprattutto, nei paesi del Sud del Mondo.
Le storie di queste tre donne sono il punto di partenza ed il nucleo del film: le vediamo all’opera nei loro paesi, nelle loro famiglie, nelle sedi dei sindacati, nelle fabbriche, per raccontarci la loro esperienza professionale e la loro vita privata. Si parla di precarietà e diritti del lavoro, di protezione sociale e di povertà femminile. Emerge la forte necessità di superare un sistema economico, sociale e politico basato sullo sfruttamento e sulla discriminazione e di proporre un nuovo concetto di globalizzazione basato su diritti e regole internazionali in modo tale che questi diventino la priorità per tutti i paesi del mondo sostituendo le priorità legate al mercato e al business.
“Manoorè” è un documentario che dà voce a chi ha sta vivendo e subendo una globalizzazione che non ha deciso e scelto. L’autrice ha dichiarato: «Manooré, in lingua woolof significa “le tue grandi capacità”. Awa, Rita e Catherine sono 3 donne sindacaliste e sono le 3 protagoniste del film. Le donne, da sempre considerate erroneamente l’anello debole della catena economica e sociale, si battono, si organizzano, si coalizzano, partendo da tutte le latitudini. Lottano per i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori che oggi, al tempo della globalizzazione, sono più che mai annullati»
Tratto da http://www.nonsolocinema.com/Manoore-di-Daria-Menegozzi.html, di Giovanni Santoro
Adisa è una bambina ma fa parte di quel popolo dei rom ancora oggi misterioso e sconosciuto ai più.
Il documentario, nato per documentare la vita, la storia, la cultura del popolo rom all'interno delle comunità della Bosnia Erzegovina, un paese in cui le ferite della guerra sono ancora aperte, riesce a cogliere la dimensione più profonda e misteriosa che è la vera essenza di quel popolo e della sua cultura, lasciando ai rom il diritto di testimoniare la propria presenza nella Storia.
Un documentario su un campo di concentramento in funzione non e' mai stato fatto, per intuibili motivi non e' possibile farlo. Ho voluto documentare il mio rapporto con quell' esperienza e quindi ridare immagini a delle vicende che non ne hanno nemmeno una. I desaparecidos non hanno immagini. La domanda che mi sono posto e' stata: quali immagini? Qualunque immagine va bene? Evidentemente no. E questo problema e' stato una ossessione ad ogni inquadratura. Secondo me l'immagine ha una sua etica. Cosa significa? Che un'intenzione puo' essere tradita dall'immagine che si usa perche' l'immagine ha dei codici propri che non sono quelli della scrittura. Allora quali immagini per descrivere un campo di concentramento? Nei sotterranei, la macchina da presa è sempre in spalla, la luce e' quella della lampadina che si vede nell'inquadratura. Non c'e' stata alcuna luce aggiunta. Fuori, nella superficie, la città è stata invece raccontata come fiction, con luce artificiale, carrelli, che in questo dispositivo funzionavano come fiction uguale finzione: gli abitanti vivevano nella finzione, sotto c'era la realtà. Sul set c'erano sopravvissuti, madri e figli di desaparecidos, che osservavano in silenzio. L' attore necessariamente si è dovuto calare in una situazione che non era quella a cui e' abituato per professione. Ho girato in modo sequenziale. Gli attori non hanno letto mai la sceneggiatura intera, ricevevano giorno per giorno le scene da girare. Volevo che si concentrassero sul qui e ora, su chi erano e non sull'intero arco del loro personaggio che li avrebbe messi inevitabilmente in una prospettiva più speculativa. Se la domanda è: la violenza si puo' rappresentare? La risposta é: la violenza non si può rappresentare perchè é soggettiva. Non c'è alcuna oggettività nella violenza. Quindi: come fare con un mezzo come il cinema a raccontare qualcosa di così intimo? Una donna sopravvissuta a un lungo periodo di detenzione e di tortura disse un giorno a qualcuno che le chiedeva cosa le avevano fatto: "Di certe cose parlo solo con le mie piante". Questa risposta mi ha accompagnato sempre, dalla scrittura al montaggio.
Dal sito http://www.garageolimpo.it/new-go/index.html