“La mia umanità sta nel sentire che siamo voci di una stessa penuria”, recita una delle frasi posta in epigrafe al romanzo, di Jeorge Luis Borges, che anticipa significativamente il senso profondo del romanzo, scritto dalla parte delle vittime, dei perdenti.
È un romanzo corposo, quello dell’indiana Kiran Desai, figlia di Anita Desai, che però si legge d’un fiato, forse per l’intreccio di vite, di luoghi e di storie minime che si collocano sullo sfondo della grande Storia. Una Storia che si accanisce contro gli impotenti, che la osservano e la soffrono in modi differenti, una Storia che è rappresentata dagli scontri che i nepalesi abitanti nella zona occidentale del Bengala (Gorkhaland) mettono in atto negli anni Ottanta per ottenere l’indipendenza, travolgendo le vite dei protagonisti, una Storia che è quella delle migrazioni verso l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti, che ci viene offerta a partire dalla dolorosa esperienza di un giovane indiano.
Kiran Desai ha una grande abilità del descrivere situazioni e caratterizzare personaggi - anche nei loro aspetti più intimamente e miseramente umani - di cui arrivano vere e proprie fotografie al lettore, tale è la vividezza delle rappresentazioni.
In virtù di tale capacità descrittiva, si crea una profonda empatia con i protagonisti, tutte vittime, tutti eredi di differenti sconfitte; da notare che il titolo originale dell’opera è The Inheritance of Loss, che esprime al meglio il senso della narrazione, perché parla di perdita. Tutti i protagonisti, infatti, hanno perduto qualcosa o sono destinati a perdere: la famiglia, un amore, la possibilità di un futuro migliore, la propria terra, le relazioni, i propri beni materiali.
Sebbene dal punto di vista sociale la separazione in classi in questo romanzo sia netta, non sembra vi siano tutele anche per chi si colloca in cima alla piramide: Patel, il giudice indiano di formazione inglese, che disprezza la propria terra e cultura e che ignora tutto ciò che lo circonda, a parte la sua dolcissima cagna Mutt, non appare certo un “vincente”. Egli ospita nella sua grande ma ormai fatiscente casa, divorata dall’umidità, una nipote, Sai, orfana di entrambi i genitori mancati in un incidente in Russia, dove il padre era andato a lavorare come astronauta; c’è poi il cuoco, privo di nome, che lavora incondizionatamente per lui e che crede che il sogno americano del figlio Biju partito per gli Stati Uniti sia ormai realtà; Biju, che con la sua amara esperienza di emigrante offre squarci preziosi per capire cosa significhi emigrare da soli, senza documenti e tutele al punto da scegliere di rientrare, ritrovandosi più povero di quando era partito; le due anziane e ricche sorelle che danno ripetizioni a Sai e che si vedono spodestate e malamente offese dai ribelli.
È un’India che sembra leccarsi ancora le ferite dell’esperienza coloniale, incarnate in particolare dal giudice, che ha lavorato per l’amministrazione inglese, e che odia tutto ciò che è India; anche i cenni agli indiani combattenti nelle guerre del mondo in nome dell’Inghilterra, (e che l’Inghilterra non hanno mai visto) fanno amaramente pensare ai rapporti di potere ed alle ingiustizie della storia, alla luce della quale la stessa giovane Sai si rende conto che “la vita non aveva un solo scopo… e neppure un’unica direzione…La semplicità di quello che le avevano insegnato non reggeva. Non sarebbe mai più riuscita a pensare che ci fosse una trama sola e che fosse solo sua, che avrebbe potuto crearsi la sua minuscola felicità e viverci dentro” (p. 376).
La realtà e le relazioni appaiono sempre più complesse di quanto sembrino e l’unica verità sembra che stia lassù, nei panorami senza tempo che costellano il romanzo: “I cinque picchi del Kanchenjunga si dotarono di luce chiara, quel tipo di luce che ti fa pensare, anche solo per un momento, che la verità è lì. Basta allungare la mano e coglierla” (p. 378).