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La città addormentata

Editore: 
Giunti
Luogo di edizione: 
Firenze
Anno: 
1994
Traduttore: 
R. Bugliani

Recensione: 

Il titolo originale è "Bruna, soroche y los tíos".Il "soroche" è il mal di montagna dovuto alle altitudini andine e nello stesso tempo il torpore, lo stordimento che ne consegue. L’ambiente infatti è quello di una cittadina sperduta sull’altipiano andino, soffocata dalle difficoltà dell’altitudine e dell’isolamento nonché da pregiudizi sociali e religiosi. Una città che vive con la testa volta all’indietro, una città addormentata, confinata tra le montagne, che si nutre delle vicende d’oltreoceano. Tutta tesa ad osservare la Madre Patria e a costruirsi un albero genealogico puro, senza ascendenze indie. Gli indios infatti sono disprezzati, per loro solo il lavoro, e rifiutati, tutti pretendono di discendere dai conquistatori. “..discendeva da una razza traditrice che soffriva ancora del suo ibridismo, sentendosene screditata e vivendolo come un peccato originale. “In questa società “ il male era onnipotente...si infilava dappertutto” : regole rigide, tabù sessuali, convenzioni, ipocrisie, scandali legati ai peccati contro il pudore. Nel pozzo della vecchia casa di famiglia c’è l’occhio del diavolo che vede tutti i peccati, una grande casa, sempre popolata di vecchi e di orfani, tutti eternamente vestiti di nero, in cui “entrano ostetriche ed escono bare con una frequenza impressionante.”In questo ambiente ossessivo la famiglia crea una vasta galleria di personaggi molti dei quali precipitati nella pazzia.Carmen Llorosa col suo strano destino di sposa e il suo salotto letterario, il vescovo e la sua armata antimassonica di 245 figli, chi tesseva per tutta la vita un tappeto lungo fino a Roma, chi passa l’esistenza ad allevare ed ascoltare le rane, lo zio Francesco si isolava dal mondo collezionando scatole di fiammiferi tanto da riempirne la casa, zia Catalina penitenze ed indulgenze fino ad assumere un contabile per calcolarle e a partire a tarda età per i Luoghi Santi. Alta, magra, imponente, nera, incombe terribile sui nipoti e sulla sorella a cui ha impedito di sposarsi. Zia Clarita, sua vittima, ma legata a lei dai ricordi comuni, si consola con i suoi splendidi gatti, con sogni di mondi lontani, sola alla fine in quella immensa casa, a cui ha rivolto le sue mire la vecchia mamma Chana, serva e bugiarda.Una realtà surreale vista attraverso il racconto di una pronipote che sceglie, come pochi altri nella famiglia, di aderire con semplicità al ritmo della vita. Scopre che l’educazione impartitale è assurda ed esce dalle torri d’avorio in cui è stata rinchiusa, dalla nebbiolina del secolare torpore della città. Si allontana e comincia a fare la vita che ha sempre desiderato, cercando gente e paesi nuovi. “L’apice della civiltà avrebbe dovuto essere che ciascuno potesse vivere la propria vita come voleva “.Le donne hanno più vincoli di tutti, per via della verginità da custodire, non hanno istruzione e prevale sempre il diritto del maschio.Ma la protagonista ha una personalità forte (per eliminare le pretese pazze dello zio non ha esitato a incendiare la casa), vuole rendersi conto di persona di tutto. Cambia il suo cognome ritornando a quello originario della sua antenata india, di cui analizza il ritratto per conoscerla meglio e che comincia a venerare. La casata che si vanta nobile è nata infatti da un ratto e da una tragedia, dalla violenza di un García conquistatore su una progenitrice india. La scrittura, che mantiene un'intonazione costantemente surreale e poetica, ha un impianto costante a piccoli paragrafi di riflessione e racconto con una breve coda di dialogo che rende il tutto straordinariamente vivace.

Autore della recensione: 
Maria Rosa Mura