C'è sempre una statua di tiranno abbattuta con furia felice e bestiale nella rivolta, quella vista di recente in TV, quella del primo romanzo di Ron Kubati, statue di tiranni che affondano come alberi radici nel sangue del popolo (Bashkim Shehu). Nel prologo di questo libro a cadere è la statua dello scià di Persia, una caduta che si ripete (pag. 46, 145, 263) e ritorna nelle ultime pagine a sottolineare le conseguenze anche nefaste di quel gesto, con l'avvento del nuovo regime khomeinista.E' l'Iran contemporaneo l'essenza del romanzo, visto con gli occhi di un suo giovane, Bijan, che è fuggito verso l'Occidente, verso il mito della libertà (pag. 197).“Devo andare là dove la gente non sa nulla e devo gridare a tutti la disperazione. La disperazione di altra gente. Della mia gente.” (pag. 178) E' questo il compito che gli ha riconosciuto il suo maestro, Kaku Sufi, salutandolo per l'ultima volta e regalandogli una cinepresa. “Rimane poco tempo ormai. Trattieni tutto ciò che vedi intorno a te. Trattieni ogni sfumatura. Perché il tuo destino è quello del narratore. Dovrai ricordare a mille e mille persone ciò che accade qui. Lo sai fare. E lo devi fare.” (pag. 256)Bijan ha seguito per lunghi anni, con pazienza, gli insegnamenti di questo strano vecchio di cui ha visto gli occhi buoni al di là dell'aspetto che a tutti incuteva paura, “lo stesso sguardo buono di mio padre” (pag. 186) E ce n'è voluta davvero di pazienza perché il maestro ha sempre fatto domande, poche le risposte o le lodi che ha dato. Ma questo allenamento gli ha permesso di capire sempre più a fondo quello che voleva esprimere e fare. Non solo gli studi sulla luce, la fotografia, ma il cinema. “Ecco la mia vita ... Io ero il cinema.Ora avrei potuto parlare al vento ed il mondo mi sarebbe stato a sentire” (pag. 210 sg.)Attraverso sequenze che alternano la narrazione dell'infanzia e della giovinezza a quella della fuga e della vita in Italia, seguiamo l'ostinazione con cui il protagonista persegue il suo miraggio, trasformandolo da sogno a progetto e infine a realtà.Bijan è nato in una bella città, Shiraz, “Shiraz! Come se dicessi dolcezza, tenerezza” (pag.21), profumata di zagare e rose, in una grande casa con un enorme cortile interno, il giardino con l'aiuola del melo, l'angolo misterioso in cui si rifugia il padre, la vasca dei pesci così cara alla sua infanzia, così trascurata sotto la pioggia il giorno della partenza (pag. 29). Bijan è il quarto in una grande famiglia con due genitori che si amano molto e riversano il loro affetto sui figli. Ha visto morire un fratellino e la madre continuare a sorridere perché “Noi, tutti noi, vivevamo intorno a quel sorriso. La mia famiglia esisteva perché esisteva quel sorriso. Eravamo appesi a quel sorriso.” (pag. 43) Vedrà poi altri due fratelli maggiori perdersi nei gorghi plumbei della storia, uno coinvolto nel fanatismo religioso, l'altro nel tentativo di reagire all'avvento khomeinista.La sorella gli porterà nel suo esilio un cofanetto prezioso, con la terra di quella patria che non potrà più rivedere, di quel giardino che è morto durante l'assenza del padre quando la famiglia si era rifugiata in montagna durante la rivoluzione (pag. 277).Bijan è ora in Italia, dopo un primo fortunoso ingresso in Turchia e l'incontro con la bella artista americana, è qui che si è diretto, verso un paese scelto per la sua cultura. (pag. 106)Qui, con l'aiuto di molti, pur tra le difficoltà anche politiche della diaspora iraniana, riuscirà a realizzare il suo film, arricchito da quella musica di flauto che ritorna in un lungo nostalgico refrain in tutta la storia.Ma avrà raggiunto la meta che si prefiggeva?Alla fine il racconto riprende la preziosa cornice iniziale che mostrava l'iraniano ormai vecchio in un nuovo volontario esilio nel sud della Francia. Da lontano, con una panoramica cinematografica.Dissolvenza. Fine.