Sarebbe riduttivo definire il primo romanzo di Cristina Ubax Ali Farah, Madre piccola, un romanzo d’esordio: di fatto rivela, e rappresenta, un lungo percorso di intenso lavoro, ricerca e riflessione su temi cari all’autrice. Ubax Ali Farah, italo-somala, si impegna infatti da anni nella composizione di poesie e racconti sui temi dell’immigrazione, delle seconde generazioni, delle donne, tenendo sempre viva, sullo sfondo, l’attenzione al mondo, alla cultura, alle tradizioni ed alla lingua della sua Somalia, a cui, in modi sempre diversi, cerca di dare voce.
Madre piccola raccoglie e riassume un po’ tutto questo.
Sebbene il romanzo presenti questioni innegabilmente legate alla sua esperienza biografica, sarebbe limitante circoscriverlo all’ambito semantico della migrazione in Italia. Il rilievo dato alla diaspora somala nel mondo, uno dei fili conduttori del romanzo, comprende e va oltre la tematica migratoria, aprendo ad una ampia serie di riflessioni.
Si tratta di un romanzo polifonico, complesso e fittamente articolato, in cui ogni capitolo prende il nome di un protagonista, che diventa voce narrante, in un intreccio di storie ed esperienze che, alla fine, si scioglie nell’incontro e nel ritrovamento.
Ritrovare se stessi, i propri affetti, il proprio passato, potrebbe essere il concetto che fa da sfondo a tutta la narrazione: esso diventa l’obiettivo delle due protagoniste, Domenica e Barni, sebbene non sempre ve ne sia consapevolezza e, anzi, molto spesso, vi si opponga un rifiuto. Le due donne, rispettivamente italo-somala e somala, sono sin dall’infanzia legate da un rapporto stretto, quasi viscerale, che tuttavia verrà spezzato dalla partenza per l’Italia di Domenica e poi dalla tragica vicenda della guerra in Somalia. Questo allontanamento imposto coinvolge, naturalmente, non solo le due protagoniste, ma l’intero popolo somalo, la cui diaspora nel mondo rappresenta lo sfondo dell’intero romanzo.
Il racconto di vite spezzate, di esistenze scisse, di appartenenze infrante o perdute, potrebbe dare al testo un tono paternalistico, auto-commiserante o rassegnato; al contrario, ciò che si respira e costantemente serpeggia tra le righe è un forte senso di tenacia. Tenacia nella volontà di rappresentare la condizione dei somali nel mondo, tenacia che porta, dopo molti anni, al rincontro delle due protagoniste, ma anche tenacia – extra-vicenda – nelle scelte formali dell’autrice: la ripresa dei suoni e della lingua somala, gli inni, le poesie, il far rivivere un patrimonio senza l’intento di inserire, una tantum, la parola esotica da dare in pasto ad un pubblico alla ricerca della nota folcloristica, ma con la volontà di esprimere sentimenti, descrivere oggetti e situazioni che solo con quella lingua è possibile fare. La cura del tessuto linguistico, l’attenzione alla cultura popolare, il renderla oggetto d’arte, sono note che da sempre caratterizzano il lavoro di Ubax Ali Farah, e che trovano una felice espressione in Madre piccola.
Infine, la lettura di questo romanzo avvicina a temi fondamentali che mettono in moto quel meccanismo decolonizzante che fa prendere consapevolezza a noi lettori italiani di situazioni storiche, passate e presenti, su cui i riflettori generalmente non si posano. Il caso della Somalia, poi, è particolarmente calzante dato il rilievo che l’Italia ha avuto nella sua storia. Madre piccola, senza i toni aspri della denuncia, aiuta a riflettere anche su questo poco spolverato capitolo, descrivendo alcune delle pesanti eredità che gravano ancora oggi sia sugli individui che sulla collettività.