Il secondo romanzo di Marco Balzano si colloca nel solco del precedente, Il figlio del figlio, (http://www.ilgiocodeglispecchi.org/libri/scheda/il-figlio-del-figlio) viste le affinità di alcuni temi che ritornano e, dal punto di vista stilistico, la scrittura sempre gradevole, nella sua piacevole e sorvegliata scorrevolezza. Sul piano dei contenuti ritroviamo l'emigrazione interna dal sud al nord Italia, il senso di precarietà delle giovani generazioni d'oggi, la scuola e l'insegnamento, che talvolta (non sempre, fortunatamente!) si traduce, per i giovani docenti, in esperienza frustrante.
Pronti a tutte le partenze raccoglie nel titolo il suo senso più profondo: anche quando meno te lo aspetti, quando pensi di continuare con il solito tran tran senza troppi scossoni, e magari addirittura con qualche certezza in più (nel caso del protagonista, il completamento di una casa dove dovrebbe andare a convivere con la fidanzata e la convinzione di avere la medesima supplenza dell'anno precedente e dunque lavoro per un altro anno) ecco che il mondo ti crolla addosso, la tua ragazza ti lascia per un altro e la tua supplenza, causa i tagli, non c'è più. Allora non resta altro che partire, dove il lavoro, seppur precario, chiama: ed ecco il nostro Giusé in viaggio in treno, da Salerno verso Milano, per una supplenza di qualche mese in un istituto tecnico...Dalla temporanea ospitalità di una zia, che rimpiange in vecchiaia il suo sud e lo tratta come se fosse il bambino di anni prima, alla convivenza con altri più o meno coetanei, esattamente appesi a un filo come lui: un insegnante di arte da L'Aquila, un marocchino che lavora in nero in un ristorante, un ingegnere cinese formatosi a Londra e poi spedito in Italia dalla società per cui lavorava in Inghilterra che là aveva tagliato le sedi. I quattro, malgrado tutto, riescono a trovare un loro equilibrio che si traduce anche in amicizia e in supporto reciproco, date le vite appese a un filo di ciascuno di loro che solo nella solidarietà reciproca trovano supporto. Ciò che dà forza al protagonista, anche quando la supplenza terminerà e lavorerà in nero in un ristorante, anche quando a casa suo padre dovrà scontrarsi con le logiche mafiose del pizzo, sarà lo studio, la ricerca dottorale su Dante, che aveva a suo tempo intrapreso ma poi abbandonato. Pare un messaggio paradossale, quasi ridicolo a raccontarsi visto il contesto materiale in cui si svolge la storia, eppure leggiamo, ed è forse questo il messaggio più coraggioso, incoraggiante e quasi folle del romanzo: "Quando avevo scritto almeno tre pagine tornavo contento dando lunghe pedalate nel freddo, buttando fuori la condensa dell'aria sporca di Milano e mi sentivo forte ad avere addosso la fatica del lavoro fisico e il cervello pieno di pensieri su Dante. Non mi chiedevo più quanto sarei andato avanti così e nemmeno mi importava di tornare giù dai miei o di essere messo in regola. Scrivere mi proteggeva, mi proteggeva studiare, perchè non mi toglievo dalla testa che occuparsi di letteratura non voleva dire starsene sulle nuvole e che anzi aveva ancora più senso farlo proprio in quel momento, proprio per cambiare quella situazione. Un giorno in cui ero particolarmente adrenalinico per questi pensieri li riferii via mail a Ramino (il suo professore universitario), e fu l'unica volta che mi rispose. 'Caro Savino, le sue parole sembrano quelle di un garibaldino. Vanno bene, ma cerchi di mantenere la calma' " (p.115).