Regina di fiori e perle è Mahlet, giovane etiope protagonista del romanzo di Gabriella Ghermandi, che diventa inconsapevolmente, nel corso della vicenda, raccoglitrice delle storie narrate da coloro che hanno vissuto l’esperienza coloniale, sia su fronte italiano che etiope.
Il romanzo di Ghermandi nasce da un indubbio lavoro di ricerca su vicende su cui solo in tempi relativamente recenti si è iniziato a fare luce; la riproposizione di fatti - che si snodano a partire dal 1935 fino al 2000 - si basa sulla raccolta di documenti ed esperienze dirette ed indirette di uomini e donne. Vi è infatti un continuo alternarsi dell’io narrante: soprattutto nella seconda parte del romanzo, Mahlet si ritrova ascoltatrice di vicende relative al «tempo degli italiani» che vengono descritte in prima persona da coloro che le hanno vissute, creando un effetto “scatole cinesi” che trascina il lettore a ritroso nella storia. Tuttavia, la struttura del romanzo non è sorretta da un movimento lineare al contrario, che va dal presente al passato, bensì circolare. Il testo si apre infatti con una promessa fatta dalla piccola Mahlet all’anziano di casa, Yacob, e si chiude con la realizzazione della stessa da parte di una Mahlet cresciuta, di ritorno dall’Italia in cui ha trascorso un periodo di studio. Tale promessa, prima dimenticata e poi faticosamente recuperata dai cassetti della memoria, ruota intorno all’impegno della giovane di scrivere le storie che ascolta, di raccontarle, di tramandarle, affinché diventino patrimonio condiviso.
L’idea di una storia comune fa da sfondo al romanzo, che, sebbene narri di vicende di sopraffazione e violenza perpetrate a danno del popolo etiope, tuttavia non sembra esprimere l’intenzione di alimentare separazioni e conflitti. Accanto infatti alla oggettiva brutalità che caratterizza l’esperienza coloniale italiana, Ghermandi descrive anche momenti di incontro, alleanze, amicizie profonde che legano gli appartenenti ai due popoli. E ciò avviene sia sotto il dominio coloniale italiano sia in seguito, quando, nonostante le ferite ancora brucino, si aprono spazi di fiducia ed ascolto reciproco.
Cito a questo proposito le parole di Cristina Lombardi-Diop che, nella postfazione, scrive: «alla fine del romanzo, sappiamo allora che questa storia non è solo di Mahlet, la protagonista, o del suo anziano Yacob, o di tutti gli etiopi che lo leggeranno: è una storia comune, “nostra,” etiopi e italiani, di noi ospiti nel presente della sua parola.» (p. 259).
L’idea dunque che la ricostruzione di una vicenda coloniale possa divenire occasione di presa di coscienza e di incontro sorregge e caratterizza il testo; il fatto, poi, che tale obiettivo sia perseguito in uno stile asciutto e senza sbavature rappresenta un ulteriore merito dell’opera stessa. Il messaggio infatti sembra acquisire maggiore incisività in quanto non viene urlato, ma raccontato con toni semplici, che però non tolgono nulla alla complessità e serietà della vicenda.
Si tratta di un’opera articolata, che incrocia numerosi temi e prospettive, che dà e prende voce, che fa luce, che contrasta stereotipi inferiorizzanti. A tale proposito, basti fare riferimento all’ampio spazio che viene dedicato alle donne ed al ruolo centrale che hanno avuto nella resistenza. Sottolineare anche questa prospettiva, mettendo al centro i soggetti che nelle narrazioni ufficiali non compaiono o sono rappresentati secondo criteri sessisti, rappresenta un’altra scelta dell’autrice estremamente significativa e coraggiosa.