Il titolo del romanzo della scrittrice nonché artista americana, che oltreoceano ha oramai collezionato prestigiosi riconoscimenti, evoca nella sua traduzione italiana (molto distante dall'originale, The Buddha in the Attic) una atmosfera quasi magica, sospesa e surreale.
In realtà, il tema che tratta è tutt'altro che idillico, in quanto racconta della migrazione di moltissime donne giapponesi verso gli Stati Uniti all'inizio del XX secolo, spose per procura a mariti incontrati solo in fotografia.
Ciò che rende evocativo il testo, nonostante il dolore, la delusione e soprattutto la durissima vita che le attende, è la corale voce narrante, un noi pieno e continuamente arricchito da nomi, voci, esperienze di donna.
Tante storie dentro una sola, una storia dentro tante, che nel descrivere le tante sfaccettature - più o meno drammatiche - che può avere l'emigrazione in una terra mai conosciuta prima, non fa mai smarrire chi legge e mantiene sempre chiaro il filo della storia.
Si inizia con il viaggio per mare, con le diverse reazioni di ciascuna, i loro incontri, aspettative, timori e il pensiero a chi resta indietro, alla terra, alla madre. E poi l'arrivo, spesso brusco, deludente, data la miseria che le foto dei mariti facilmente mascheravano e il lavoro senza sosta nei campi o nel piccolo commercio.
E' un'onda che prosegue negli anni, che accompagna chi legge nella vita di queste donne, prima giovani e quasi leggere, poi appesantite dal lavoro e dai figli, da quei figli che talvolta paiono estranei, perché cresciuti in America e parlanti una lingua che loro, le madri, non sempre sono riuscite ad apprendere: "una dopo l'altra, le vecchie parole che avevamo insegnato loro cominciarono a sparire. Dimenticarono i nomi dei fiori in giapponese. Dimenticarono i nomi dei colori. Dimenticarono il nome del dio volpe, del dio del tuono e del dio della povertà, al quale non riuscivamo a sfuggire. […] Dimenticarono cosa dire all'altare dei nostri antenati defunti, che vegliavano su di noi giorno e notte. Dimenticarono come si conta. Dimenticarono come si prega. Vivevano le loro giornate nella nuova lingua, le cui ventisei lettere ci sfuggivano ancora, malgrado abitassimo in America da anni. […] Ma quando li sentivamo parlare nel sonno, le parole uscivano dalla loro bocca - ne eravamo certe - in giapponese" (83-84).
Il dilemma che spesso si ripropone nelle seconde generazioni, nei figli dei migranti emerge anche in tal caso: la presa di distanza dai genitori e da ciò che rappresentano ed il desiderio da parte di questi ultimi che i figli non perdano una parte preziosa di se stessi.
Di fatto, sebbene il testo racconti una specifica migrazione, come spesso accade quando si tratta di tali temi compaiono tratti trasversali a moltissime altre esperienze migratorie: l'esempio delle seconde generazioni è uno, ma anche la fatica dell'inserimento, il lavoro duro, il sospetto nei confronti degli stranieri, ma anche l'estremo bisogno della loro forza lavoro: "chi avrebbe raccolto le fragole nei loro campi? Chi avrebbe colto la frutta dai loro alberi? Chi avrebbe lavato le loro carote? Chi avrebbe pulito i loro gabinetti? Chi avrebbe rammendato i loro vestiti?" (63)
L'anafora che introduce la domanda retorica prosegue ancora per molte righe, quasi a ribadire la necessità che oramai la nuova società ha dei migranti, ma di cui, allo scoppiare del secondo conflitto mondiale, con non troppa difficoltà riesce a sbarazzarsi, confinandoli in altre terre più lontane, dove ricominciare di nuovo.