Storia di mia vita, autobiografia di una persona senza dimora, apre una finestra a cui di solito i cittadini non si affacciano, in genere limitandosi a un gesto di fastidio, ad una frettolosa elemosina o a un 'ha scelto una vita così'.
Scelta?
Una politica dell'immigrazione che ti lascia senza documenti, che non accoglie i richiedenti asilo, almeno il tempo di verificare la loro richiesta, ma li lascia per mesi, mesi e mesi sulla strada, persone uscite dal carcere e senza risorse, precipitati da matrimoni o imprese falliti, persone con problemi di salute fisica, mentale, di dipendenza da alcol, droga, gioco... Certo uno alla fine può anche autoconvincersi che questa è una vita libera e riscattare così la sua autostima, che preferisce dormire fuori con il cane e un cartone di vino che in un dormitorio...
Il nostro autore se lo chiede: A distanza di anni mi domando che cosa mi ha spinto di fare questa scelta difficile. Sentimenti? Ne ho pochi. Carattere ribelle? Mancanza di senso di responsabilità? più probabile voglia di vita un po' sbandata.
Ma leggendo le sue ultime pagine sembra emergere una risposta diversa. La sua vita 'normale' precedente arriva alla fine del racconto della vita in strada a Roma: la famiglia, la scuola, il lavoro, anche in Russia, il rientro in Polonia con la moglie russa. L'abbandono di tutto e la 'fuga' verso un paese straniero scatta quando la moglie lo abbandona portandosi via il figlio, come se uno avesse allora deciso di buttarsi via lui stesso, non importa dove.
Invece lei dopo si inventa di tutto per non tornare, perdo la testa e dopo Capodanno del 1992 prendo solo una borsa saluto tutti e dico non mi vedrete più.
E' una scelta il cupio dissolvi? i tentavi di suicidio? L'autore descrive in maniera piana, senza patetismi, come si è organizzato le giornate in 30 anni di vita in strada a Roma. la gente del quartiere che lo aiuta, gli amici, gli affetti, il lavoro che comunque si cerca e se possibile si mantiene: di notte dormo sui cartoni, mattina vado a lavorare.
E le solenni bevute: Ovviamente la vita per strada comporta anche un'altra cosa. Per non pensare troppo si beve dalla mattina fino a sera tardi. Alcolismo è una cosa molto grave, c'è una linea sottile che non sai quando l'attraversi.
Tanti i morti per strada, anche perchè tutti tendono a negare di essere alcolisti. Janek Gorczyca è un senza tetto particolare perchè, straniero, si è impossessato della nostra lingua e, grazie alla sua affidabilità, riesce a tessere relazioni significative anche con gli italiani che vivono o lavorano vicino a lui, crea una rete che in molti casi salva lui, la donna con cui convive e chi vive vicino a lui, gli offre condizioni migliori, ne mantiene viva l'autostima; gli permette di instaurare rapporti con le autorità, dandogli un ruolo importante nel suo ambiente, Il suo datore di lavoro gli suggerisce di occupare Villa Farinacci, la Torre, un monumento storico, prima era vuota, era centro sociale che hanno sgombrato, e questa viene progressivamente occupata da italiani, stranieri, così siamo più coperti e non diamo nell'occhio. All'inizio sono in sette ma poi sempre di più e aumentano le invidie e le liti, le prepotenze, i tentativi continui di sopraffazione, gli sgomberi... Nonostante tutto - uno spazio per vivere la possibilità di avere luce e acqua lavoro soldi - vita così è pesante. Le perdite, le morti, diventano anche più difficili da sopportare e di nuovo ci si rifugia nell'alcool che è ormai uno stile di vita, pericoloso. Questo scrive un alcolista da 50 anni. Qui voglio finire mio racconto perchè ho sofferto troppo. Può anche darsi che vivere in strada sia una scelta, certo è sofferenza e questo libro, nella sua semplicità non letteraria, senza enfasi e pietismi, ce ne dà una preziosa testimonianza.