Michele Capriati è un architetto di mezza età, con uno studio professionale ben avviato, un matrimonio finito alle spalle, una nuova compagna, due figli ormai grandi e una passione per la viticoltura che lo porta sempre più spesso ad affiancare il fedele fattore nella cura dei terreni ereditati dal padre. Una sera, guidando sotto un forte temporale, Michele investe e uccide un giovane uomo, uno straniero dalla pelle scura. È un trauma incancellabile, che gli cambierà la vita, ma che prima di tutto lo getta in un’impasse assoluta: «Come si deve comportare uno che ha appena ammazzato un uomo?». Dal permesso di soggiorno della vittima, Michele apprende che era di origine eritrea, si chiamava Adonai Gebremansour. Michele perde il sonno e l’orientamento esistenziale, il suo «pensiero dominante» è la vita troncata del giovane immigrato; egli è solo nella colpa e nel bisogno di espiazione, incompreso da chi cerca di stargli vicino: «Ho ucciso un uomo e dovrei fare finta di niente. Simona e mio figlio, il fattore, i dipendenti dello Studio: sono tutti ansiosi di scagionarmi, di distogliermi, di indurmi a non pensarci più, con un’intesa che ha sapore di omertà. Poi sono incredulo del fatto che nessuno mi rivolga un’accusa o gridi il suo sdegno. Non una madre né un fratello né un amico. Sarà come diceva l’ispettore, che chi lo conosceva ha paura a farsi vivo. Come se fossi andato a sbattere contro un albero o un paracarro. È ovvio che se si fosse trattato di un altro, di una persona del posto, le cose starebbero in modo diverso. La vita di quel ragazzo doveva valere poco nella terra in cui è nato ma vale ancora meno qui. E anch’io ora dovrei affrettarmi a cancellarlo come una macchia, come un insetto schiacciato sul parabrezza. […] Non posso ignorare così tanto di una persona che è morta a causa mia. Devo potergli dare un’identità. Mi pare un atto minimo di rispetto per la sua vita e per la mia». Inizia così la quête di Michele, una «questione privata» che lo allontanerà sempre più dalla cosiddetta “normalità”, dalla quotidianità che fino a poco prima egli condivideva con i propri cari, ed è una ricerca che lo porterà, attraverso le associazioni di volontariato locali, dentro il mondo dell’immigrazione con i suoi lati inesplorati o meno noti, trascinandolo, una tappa alla volta, personaggio dopo personaggio, tra dure realtà e ancor più dure testimonianze – le pagine in cui si rievoca l’odissea migratoria di Adonai e del suo amico Yemane sono le migliori del libro, le più tragicamente avvincenti – fino a Roma e oltre, in quell’Eritrea vessata da tirannia e miseria dalla quale Adonai era partito e dove Michele, al termine di un’esperienza travolgente di perdono e di riscatto, avrà modo di superare la colpa e il rimorso, ritrovando un senso puro e rigenerato al proprio essere al mondo.