Spazia a tutto campo Helena Janeczek. Ha un punto fermo nello spazio, l'abbazia di Montecassino, e riferisce a questo perno piantato nel territorio italiano tutti i fili del mondo, tutti i movimenti possibili sulla faccia della terra, il gulag ad Arcangelo, Israele, le rose dell'Iran, la Nuova Zelanda, Leopoli e Milano... Nel tempo si muove se possibile con disinvoltura anche maggiore, passando senza tregua dagli anni '40 ai giorni d'oggi, legando insieme memorie, persone, affetti. Rievoca i ricordi familiari, racconta i legami affettuosi tra genitori e figli, ancor più tra nonni e nipoti, il nonno maori, il nonno polacco, le amicizie tra vecchi e giovani, le vecchie zie e cugine e i figli degli amici, con i vecchi che passano il testimone, trasmettono a parole, con le foto, con l'oggetto, la loro memoria, come traccia di una storia collettiva.
La scrittrice è presente in prima persona nelle sue ricerche (ma scrivi un romanzo o un libro di storia? le chiede la madre), nei suoi rapporti familiari e amicali.
Vuole ricordare le vite dei padri, anche riconoscendo la pietà della menzogna. Perchè la memoria non è tutto, spesso si tace, si risparmia il dolore, si nasconde il non aver potuto essere diversi da quello che si è stati, costretti su binari di un destino che non si sarebbe scelto, con la dolente invidia per chi ha agito come noi avremmo voluto agire. La menzogna può essere in molti modi salvifica, come il nome falso di suo padre che l'ha salvato durante la guerra e che ora è il suo nome.
La Janeczek dedica il libro a lui (e a suo figlio), un omaggio al padre, a quello che non ha raccontato e che lei non ha mai saputo, una ricerca per accendere una piccola luce di comprensione su una zona oscura della vita di una persona, periodi del cui dolore si sono volute risparmiare le persone amate e i giovani figli. Esalta il ricordo (riconoscenza, riconoscimento) del coraggio civile di molti, più che del valore guerriero dell'armata polacca a Montecassino o degli altri poveri morti del suo cimitero, indiani, nepalesi, maghrebini, texani.
La memoria può anche tacere alcuni fatti sgradevoli, la perdita dell'innocenza, può intorbidarsi per l'età, non può essere sollecitata alla precisione inconfutabile, ma una memoria che passa attraverso i legami affettivi diventa esperienza vissuta e così il giovane ne trae benefici, è parte di lui. Il testimone viene passato alla nuova generazione.
Così Edoardo, figlio e discendente di polacchi, 'tiene alto il nome dei Bielinski', gli viene naturale ricorrere a questa lingua, diventa per lui cogente interessarsi in prima persona di giovani polacchi scomparsi nelle campagne italiane negli anni duemila.
È un'Italia dalle molte appartenenze quella che si muove intorno a Cassino, sia nel passato che ora, e la scrittrice non esita ad utilizzare molte lingue nel tessuto dei suoi racconti, profittando delle sue personali molteplici ascendenze. Tedesco polacco yddish, ma anche inglese e maori.
Sceglie spesso come punto di vista quello dei giovani, adolescenti 'normali' dell'epoca contemporanea, freschi, realisticamente vivi, nei loro rapporti tra amici, con le madri, con gli anziani, con le ragazze. Rapata che ripercorre al posto del nonno le tappe di una commemorazione, gli amici Edo e Andy, Anand, il giovane e sensibile indiano dalla pelle scura che la ricchezza non protegge da minacce razziste.
Helena Janeczek ci racconta di vite che si intrecciano in modo inestricabile, con la leggerezza degli spostamenti del mondo contemporaneo e con quelle popolazioni travolte dagli spasmi della Seconda Guerra Mondiale nell'ambito di grandi imperi. Per cui polacchi prigionieri della Russia passano in Turkmenistan e poi entrano nel circuito dell'impero britannico, India, Africa, Nuova Zelanda...
Uccelli impazziti per lo scatenarsi della guerra, come le rondini che nel '44 a Montecassino non potevano certo tornare, non potevano esserci, tra macerie e spari.
Ma che ora sono tornate, hanno ricostruito il loro nido.