Perché mettersi a scrivere? Munif è un economista, ma a partire dal 1973, a quarant'anni, comincia a dedicarsi alla scrittura con sempre maggiore convinzione e producendo opere monumentali. La sua poetica viene esplicitata in questo romanzo quando il protagonista dichiara di avere due progetti che lo ossessionano: scrivere e andare a Ginevra a portare le sue denunce. Scrivere quello che avviene nei paesi sottomessi a un regime dittatoriale, affrontare il tema della tortura ad esempio, da più punti di vista, basandosi su semplicità e verità, in termini quotidiani, senza preoccuparsi delle regole di stile. "Voglio parlare alla gente, non per suscitare commozione, ma per provocare azioni efficaci. Le parole non sono armi. La coscienza della gente, la ragione, il loro senso del dovere: queste sono le vere armi". Nelle situazioni che lui stesso ha sperimentato, subendo il carcere e l'esilio, "aspettare, tacere, significherebbe collaborare con i carnefici e partecipare ai crimini contro tutti, soprattutto contro i prigionieri." La molla della scrittura per Munif è l'impegno civile: "Devo essere testimone di quanto accade laggiù, nei corridoi, al buio, dietro le mura di quell'edificio giallo, che opprime il cuore degli uomini come un mostro." Ma l'occidente ha ignorato le voci che vengono da decenni dai paesi arabi e che i traduttori hanno cercato di far arrivare alla coscienza pubblica, non ha rilevato il bisogno di diritti umani che esprimono. Non si è affatto verificato quanto sperava l'autore. "Il mondo intero si rivolterà quando verrà a conoscenza delle torture che hanno luogo sull'altra sponda del Mediterraneo, di giorno e di notte. Come si può dormire in pace con se stessi, mentre le vittime continuano a lamentarsi e gemere? Non esiste un uomo capace di tanto." Questo testo è del 1975, arrivato in Italia in questa traduzione nel 1993, eppure manifesta esattamente quello che è stato urlato nelle piazze in questi anni e con maggiore intensità e risultati dalla primavera del 2011. All'est del Mediterraneo parla appunto di diritti umani conculcati, in un imprecisato paese arabo, di imprigionamento e tortura, del desiderio di imparare riflettere parlare migliorare il proprio paese, dell'aspirazione a far conoscere all'Europa e al mondo libero quanto avviene in questi stati-prigione, nella speranza che reagisca con azioni concrete. Le voci narranti sono due: Ragiab, giovane studente, imprigionato e torturato, rimesso in libertà dopo che, alla fine di cinque anni di torture, ha ceduto e firmato una confessione-denuncia. Gravemente malato, gli viene concesso di andare in Europa a curarsi (a patto di denunciare gli studenti che potrebbe incontrare). Il racconto inizia sulla nave che lo porta prima in Grecia e poi in Francia, avvolto dalla totale indifferenza dei passeggeri che nemmeno sospettano quanto lui vive. Ragiab, tormentato dal suo cedimento, si ripromette di scrivere e di andare a Ginevra per denunciare quanto succede nel suo paese. L'altra voce è quella della sorella, Anisa, che vuole vederlo uscire vivo dal carcere, ma lo ha in pratica sempre indebolito, piangendo quando va a trovarlo, dandogli o nascondendogli notizie. Anisa che poco per volta gli si avvicina e lo capisce sempre di più, fino a pensare lei stessa ad una fuga, a sperarla. "Spero di poter fuggire da questo paese, ma verso dove? Gli altri posti sono pronti ad accogliere gli esiliati in cerca della libertà e di un pezzo di pane?" Anisa è la voce pessimista di chi si sforza di sopravvivere comunque, limitando i danni, ma quando vede il fratello uscire distrutto dal carcere, si rende conto che non possono nemmeno sperare. "Ci avviamo verso la fine della nostra vita come esseri sprovvisti di ogni cosa: libertà, futuro, speranza." Sullo sfondo altre figure minori: il cognato prima indifferente, poi sempre più consapevole, l'innamorata che cede alle imposizioni della famiglia e lo lascia, un vecchio medico francese che ha subito le torture naziste; la più importante è la madre che muore per le percosse dei poliziotti ed il cui atteggiamento si contrappone a quello di Anisa. Al figlio lei dice sempre di resistere a qualunque costo perché se tradisse i compagni sarebbe peggio che morto. Ragiab scrive e distrugge quanto scrive, è pieno di esitazioni, vuole testimoniare ma si chiede continuamente "a cosa servono le parole? Chi leggerà il mio romanzo? E se qualcuno lo leggerà, quale sarà la reazione?" In Francia guarda con stupefatta meraviglia le sedi ben segnalate dei partiti politici, "le persone entrano ed escono senza paura, senza voltarsi per accertarsi se qualcuno li segue. Parlano per la strada, a voce alta. E i giornali pubblicano di tutto.." I libri non sono "oggetti incriminati" per il cui possesso si può venir dimenticati in prigione. Parigi, riflette Ragiab, ha saputo costruire queste condizioni, non è stato sempre così. Non basta dunque chiedere aiuto a chi è già passato da analoghe sofferenze, caricarli di responsabilità. "Ogni popolo deve pagare il prezzo della propria libertà". Ciascuno deve fare la propria parte, con i fatti, le parole non bastano. Per questo, quando il regime fa pressione sulla sua famiglia, sul cognato, perché lui non rientra dall'Europa e non manda informazioni, Ragiab vi vede una seconda possibilità per riscattarsi da quella debolezza che non riesce a perdonarsi. Ritorna. Per testimoniare e lottare non solo con le parole, ma con i fatti, con la sua vita.