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Il mio fiume

Editore: 
Mimesis
Luogo di edizione: 
Milano
Anno: 
2017
Traduttore: 
Elvira Mujčić


Recensione: 

E’ uscito a marzo 2017 per i tipi di Mimesis di Milano il libro Il mio fiume di Faruk Šehić (in originale: Knjiga o Uni), nella traduzione di Elvira Mujčić. Il romanzo d’esordio per lo scrittore bosniaco ha vinto il prestigioso premio “Meša Selimović” nel suo paese (2012) il Premio dell’Unione Europea per la letteratura (2013). Nel libro, un giovane sognatore, poeta, soldato-veterano dell’ultima guerra, “cronista di un tempo scomparso”, ci accompagna in un lungo sogno, nel quale ripercorriamo gli episodi significativi della sua vita passata, vivendo anche la sua esperienza personale della folle e assurda guerra fratricida in Bosnia, negli anni novanta del secolo scorso. Alcuni anni dopo la guerra, Mustafa Husar (protagonista, narratore, nonché alter ego dello scrittore) incontra nella sua cittadina un fachiro indiano che lo invita ad entrare in un sogno ipnotico in cui Mustafa è costretto a rivivere gli episodi passati e i traumi post-bellici, portati in superficie grazie alla tecnica di regressione ipnotica. Mustafa torna così indietro nel tempo, alla sua infanzia, alla giovinezza spensierata e felice e, infine, alla guerra che, come una voragine apocalittica, inghiottisce anche lui. Nella ricostruzione frammentaria delle parti sparse di una vita spaccata, di una tragedia vissuta e non voluta, e di un futuro immaginato ma non realizzato, il protagonista torna non solo nel proprio passato, ma anche nelle più profonde tenebre del suo animo e della sua mente. Il viaggio immaginario continua così tra le luci di una natura incantevole, descritta con un pathos poetico sublime, e il buio dell’odio e della morte. Šehić descrive con un forte impatto emozionale il fiume Una: il suo colore verde smeraldo, stupendo e spumeggiante, le sue sponde curve e rigogliose in primavera, le sue piante e il verde che le contraddistingue, i pesci e gli animali che ci abitano, i suoi cicli naturali. “L’Una e le sue rive erano il mio rifugio – un’impenetrabile fortezza. Là, sotto le fronde dei rami, mi nascondevo dalle persone, solo, nel silenzio circondato dal verde. Tutto ciò che udivo era il battito del mio cuore, il remeggio dei moscerini e il fragore di un pesce quando saltava fuori dall’acqua e poi si rituffava. Non che provassi astio verso le persone, ma mi sentivo meglio in mezzo alle piante e agli animali selvatici. Quando entravo nella boscaglia vicino al fiume non mi poteva accadere nulla di male.” (pag.34). L’autore ricorda prima con nostalgia le giornate di pesca e di pace trascorse in solitudine, le nuotate in compagnia, estati giovani ed effervescenti ed autunni monotoni. Inserisce poi all’interno di questa cornice la lista infinita dei profondi e semi-esplorati strati dell’animo di Mustafa, intrecciati in modo inestricabile con la natura di cui fa parte, con la fantasia di cui è ricco non solo il suo ambiente naturale e sociale, ma anche lui stesso. Il tema dell’acqua lo porta quasi a raggiungere uno stato di armonia e di equilibrio tra passato e presente, tra sognato e vissuto, tra fantasie, miti e leggende che lo aiutano nei momenti importanti, durante la sua crescita e anche durante la sua lotta per la sopravvivenza: “Sarebbe logico che io ritornassi da dove siamo partiti: all’acqua di cui siamo composti, alle vorticose correnti dell’epoca subacquea…” I passaggi tra il prima e il dopo sono molto sfumati, l’atmosfera sembra quasi torbida, come il fiume Una quando è in piena e diventa color cioccolato. Il percorso interiore fatto dal protagonista è doloroso, ondeggiante e a più livelli, tra realtà impressa nella mente e nel sentimento da un lato e la fantasia onirica dall’altro, tanto che a volte non è facile uscire fuori dal sogno che ci racconta o dal fiume in cui lui si tuffa. Il tema della guerra si inserisce nella narrazione come un fantasma uscito da un cassetto grigio chiuso male, che all’improvviso scatta e colpisce. Mentre nella descrizione poetica del fiume e della natura lo scrittore si muove su un registro melanconico, caldo e riflessivo, nei racconti di guerra diventa realistico, crudo, coraggioso nell’accusare gli artefici del male e sicuro nel voler esprimere chiaramente il proprio giudizio. Un giudizio che, benché tenda ad essere universale, è spesso personale e soggettivo, in quanto il protagonista è un soldato-guerriero, ma è, prima di tutto, un uomo che lotta per la propria vita. E’ probabilmente uno dei passaggi più tristi del romanzo quello in cui assistiamo alla trasformazione di un uomo normale in un uomo che è costretto a odiare per sopravvivere. “Impariamo a odiare, perché è l’unico modo per sopravvivere, e grazie ad esso è possibile svegliare la rabbia e la forza che ci manterranno nella vita…”. Šehić raggiunge un alto livello narrativo e poetico nell’interpretare gli stati d’animo di Mustafa Husar sia durante il conflitto, in cui sembra congelato in un essere-altro che vuole sopravvivere, sia dopo, quando lo ritroviamo affetto da una pesante sindrome post-guerra, dai traumi causati dalla morte vista e annusata dal vicino, da incubi e fantasmi dei compagni morti che “ridono in bare trasparenti in fondo al fiume”. Con una rara precisione di parole, colori ed immagini Šehić riesce a penetrare nei posti più nascosti dell’animo del lettore e ad abbracciare simbolicamente la gente che si trova sull’altra sponda del fiume, dell’acqua, della città, di qualsiasi appartenenza. “Il cronista del tempo perso, annegato, bruciato”, alla continua ricerca di un senso, nella disperata voglia di dimenticare il passato, ma volendo comunque ricordare i giorni felici, scrive: “Quando sei alla ricerca di quello che è stato perduto, allora sei anche il cronista dei sogni. Dovevo esortarmi a sognare e dentro, nel sogno, a costruire tutto ciò che nella realtà non esisteva, per poter descrivere meglio…”. Il linguaggio fortemente poetico, la struttura del romanzo flessibile e apparentemente caotica, l’atmosfera torbida degli anni novanta in un Paese distrutto, il caos a l’assurdità estrema della guerra di cui l’autore condanna ogni ragione (religiosa, etnica, politica, nazionalistica), l’approccio psicologico e il metodo introspettivo nella narrazione, la cronaca storica, personale ed emotiva – tutto ciò rende questo libro prezioso e indimenticabile. Anche in questo caso, la letteratura riesce a produrre un effetto quasi terapeutico sia per l’autore sia per il lettore che, una volta letto il libro, decide di non separarsene più. 

P.S. Si consiglia ai lettori di tuffarsi dentro questo fiume di parole veloci e profonde … e di nuotare, contro corrente… e ogni tanto di provare ad uscire e tendere le mani verso l’altra sponda del fiume, dove c’è sempre qualcuno che osserva e sorride.

Recensione uscita sul sito Balcani e Caucaso (qui) e riadattata per il sito de Il Gioco degli Specchi.

Autore della recensione: 
Aleksandra Ivić