Il terzo romanzo dello scrittore nato a Sarajevo ruota attorno alla figura che ne dà il titolo, un padre che racconta se stesso in prima persona, guardandosi da fuori, come se fosse un altro. Il padre del titolo, infatti, è anche voce narrante, che crea, in un gioco di distanze ed accostamenti, un’immagine complessa e confusa di sé.
Il personaggio maschile intreccia la propria sconsolata ed amara vicenda con quella – sullo sfondo – del proprio paese, lo stesso dell’autore, che ancora porta i segni evidenti del conflitto bellico. La narrazione non è comunque incentrata sulla guerra, ma ruota intorno all’ingombrante io del narratore, che ricorda, per certi versi, lo Zeno sveviano. L’inconcludenza e l’indecisione attanagliano l’io narrante sia in ambito familiare, nel rapporto inaridito con la moglie, che in quello lavorativo, da cui vuole e non vuole svincolarsi. Tale caratterizzazione, che presenta anche qualche tratto bohémienne, non condiziona completamente il clima del romanzo, che apre anche a spiragli di ironia, tenerezza, sorriso, sarcasmo e denuncia.
In particolare i passaggi che raccolgono tutte insieme queste istanze sono i dialoghi tra il padre e la figlia, che nell’ingenuità dei suoi pochi anni fa domande che creano l’occasione per il protagonista di esprimere la propria, critica, visione, facendo riflettere e sorridere il lettore, che non sa mai cosa aspettarsi dall’inaffidabile – ma per certi versi intrigante – protagonista.
Il non immaginarsi “una fine” nasce dalla presenza-assenza di una trama, il cui filo rosso sembra un fiume carsico che appare e scompare, e dalla vita stessa del protagonista, sospesa in quanto eternamente ad un bivio ma pesantemente trascinata a terra dai riferimenti alla ex Jugoslavia ed alla guerra balcanica, che riportano protagonista (e lettore) a contatto con l’amaro reale.
Uno dei messaggi significativi, anche se non autoevidenti, (come nulla d’altronde in Il padre di mia figlia) trasmessi da questa lettura, viene esplicitato dalle parole dello scrittore nella nota finale; esso concerne il ruolo dell’arte, intesa come strumento vivo, non statico che “deve offrire più di cordiali colpetti su spalle vanitose” (p. 184). L’idea di una scrittura impegnata, militante, viene così, nel caso non si fosse colto, enunciata senza mezzi termini.
Due note del romanzo, discontinuità e imprevedibilità, sono rese anche stilisticamente dalle scelte linguistiche e formali. Senza dimenticare che si tratta di un testo in traduzione, occorre tuttavia riconoscere che quest’ultima riesce a non perdere, sul piano linguistico, la stessa ironia sprezzante e spiazzante che traspare sul piano dei contenuti. Anche le lingue, nel modo in cui vengono riportate nel romanzo (ad esempio l’inglese) non sembrano venire considerate troppo “seriamente.” Questo è, di fatto, l’atteggiamento che nutre il protagonista nei confronti di se stesso e di tutto ciò che lo circonda: la parodia linguistica, la ripetizione di frasi o brani disseminati nel testo, i neologismi, l’inserimento di altre lingue sono tutte scelte formali che sembrano sostenere la caratterizzazione del personaggio: autoironico, che si fa beffe di se stesso, che non prende e non si prende sul serio, perché ha capito che è questa l’unica strategia per sopravvivere ai drammi del quotidiano e della storia.