L’esordio letterario, in traduzione italiana, di Lea Ypi permette anche a chi non conosce la storia albanese degli ultimi 40 anni di averne un quadro che, nonostante il filtro della lente autobiografica, risulta estremamente chiaro. Uno di quei casi in cui un romanzo sintetizza la Storia a partire dalle storie di chi l’ha vissuta, facendolo in maniera onesta, senza timore di enunciarne le contraddizioni.
La protagonista, nonché voce narrante, coincide almeno nominalmente con la scrittrice, cresciuta negli anni Ottanta e protagonista del passaggio epocale che il Paese delle Aquile ha vissuto a partire dal 1991, che pone e si pone interrogativi, di spontanea e disarmante saggezza, che contribuiscono a rendere estremamente lucido il quadro entro cui si svolgono le vicende.
Si ha subito l’impressione che quella di Lea sia una famiglia atipica, composta da una nonna saggia e determinata, che le parla in francese (di cui si hanno stralci nel romanzo), un papà dotato di cultura e ironia ma con una serie di fragilità, un fratello minore e una mamma che emerge in tutta la sua caratterizzazione solo nella seconda parte della storia, quando gli eventi lo consentiranno. Lea ritrae con affetto i suoi familiari, e tratteggia brillantemente il rapporto tra i suoi genitori: “Il loro matrimonio era come una catena montuosa: da scalatori esperti, sapevano quando era il caso di spingersi fin sulle cime e quando invece era meglio tirarsi indietro, per non rischiare di essere inghiottiti dai crepacci in cui erano caduti tanti dilettanti. Ma a volte temevo che anche loro sarebbero precipitati” (p. 157). La caratterizzazione dei personaggi appare vivida, resa tale spesso dai loro scambi di battute taglienti che sortiscono un effetto comico. Nel caso che segue, la questione riguarda l’acquisto di un’auto:“ ‘A noi non serve la macchina,’ saltò subito su mio padre […] Sono un disastro per l’ambiente. […] La mamma diceva: ‘La stanno comprando tutti. È una necessità. Chernobyl è stata molto peggio per l’ambiente!’. ‘Cosa c’entra Chernobyl con la macchina?’ ribatteva mio padre. Lei proseguiva, imperterrita: ‘Perché, secondo te la fabbrica metallurgica che ci hanno costruito i cinesi è stata un bene per l’ambiente? Il nostro problema non è l’ecologia. È che non abbiamo abbastanza risparmi da permettercela, la macchina!’ ‘ Due torti non fanno una ragione’, sentenziava lui. Tipicamente, quegli scambi all’apparenza innocui portavano a dispute di più vasto respiro, che abbracciavano la storia e la geografia mondiali” (pp.160-161).
La biografia di Lea è quella della sua nazione, che lei osserva e descrive in modo molto limpido, ragionando anche sui limiti e sulle involuzioni che il cambio di paradigma ha portato con sé. Uno riguarda la libertà di spostamento, dopo che i confini sono caduti: “In passato venivi arrestato anche solo per aver pensato di andartene. Adesso che in patria nessuno cercava di fermarci, dall’altra parte non ci volevano più. Non era cambiato niente, solo le uniformi delle guardie. Rischiavamo di essere arrestati non in nome del nostro governo ma di quello degli altri, gli stessi che prima ci avevano spronati a tagliare i ponti col passato. L’Occidente era stato decenni a criticare l’Est per le sue frontiere chiuse, finanziando campagne per esigere la libertà di movimento, condannando come immorali gli stati che limitavano il diritto di espatrio. I nostri esuli venivano accolti come eroi. Adesso li trattavano come criminali” (p. 151). Non si respirano rabbia o cinismo, ma solo una disincantata e amara descrizione del reale. Vi sono naturalmente anche riferimenti a quell’evento epocale che è stata la partenza rocambolesca della Vlora, il cargo che nell’agosto 1991 ha portato quasi 20mila albanesi a Bari, poi rimpatriati per la maggior parte con l’inganno. La storia dell’Italia e dell’Albania è notoriamente connessa e il romanzo ne dà conto, con riferimenti disseminati nelle pagine, non ultimo al mito berlusconiano che negli anni Novanta esplodeva.
Una delle riflessioni più lucide che compara il prima e il dopo in Albania ruota sempre intorno al tema del titolo, la libertà: “Come molti della sua generazione, mio padre aveva dato per scontato che la mancanza di libertà consistesse nel fatto che erano altri a dirti cosa pensare, cosa fare, dove andare. Adesso scopriva che non sempre la coercizione assume forme così dirette. Il socialismo gli aveva negato la possibilità di essere ciò che voleva, di sbagliare e di imparare dai suoi sbagli, di esplorare il mondo nei suoi termini. Il capitalismo stava negando la stessa cosa ad altri, persone che adesso dipendevano dalle decisioni di mio padre, la gente che lavorava al porto. La lotta di classe non era finita. Questo era già chiaro. E mio padre non voleva vivere in un mondo privo di ogni solidarietà, in cui sopravvivevano solo i più forti, in cui il prezzo del successo di alcuni fosse l’annientamento delle speranze di molti (p. 202). Una delle pagine più commoventi riguarda infatti l’incontro che molti rom, lavoratori portuali, in seguito a delle “riforme strutturali” necessarie alla transizione che poi avrebbero portato – secondo i sostenitori di siffatte riforme – effetti positivi, hanno col padre di Lea, che non ha potere di fermare questi tagli e che si arrovella su come procrastinarli. Una pagina di estrema attualità, che mostra come le persone vengano considerate numeri da tagliare e con le quali quest’uomo prova a schierarsi, imponendosi almeno di imparare i nomi di tutti: “ ‘Se dimentico i nomi, dimenticherò la loro stessa esistenza,’ diceva. ‘Non saranno più persone. Diventeranno numeri. Diventeranno numeri’” (p. 203). Egli osserva, e soffre, gli effetti collaterali della modernità capitalista che vanno a schiacciare i più deboli.
Un romanzo, dunque, che ha il merito di raccontare con ironia e leggerezza, senza la veemenza che potrebbe legittimamente appartenere a una donna la cui famiglia ha subito le violenze del regime per anni, la storia di un paese ancora troppo poco noto, per tanti suoi aspetti, ai lettori e alle lettrici italiane.