Marco Balzano ritorna, dopo la felice parentesi di Resto qui, a uno dei temi cui ha dedicato la gran parte dei suoi testi: la migrazione. In questo specifico caso la prospettiva non guarda alle migrazioni interne, bensì allarga a una dimensione internazionale che coinvolge Italia e Romania, con un approccio che trova un giusto equilibrio tra dimensione introspettiva e fattuale.
Tre sono le voci narranti, membri di una famiglia rumena esplosa per ragioni che da loro non dipendono, ma sono strutturali alla società: una madre che per garantire studi e dignità ai figli parte per fare un lavoro di cura a Milano, con un pesante strascico di sensi di colpa (aggravati dal fatto che parte di nascosto, come una ladra, per non salutare i figli e diventati schiaccianti quando un evento si abbatte inaspettatamente su uno di loro).
Il primo punto di vista appartiene al figlio adolescente, Manuel, ed è significativo che Balzano inauguri la vicenda con lui, con quello lasciato indietro, con l’orfano bianco, come la sociologia definisce i figli di madri partite: emerge - oltre che una enorme capacità empatica che la scrittura di Balzano ha sempre espresso verso coloro che non riescono a prendersi troppa voce, cui la restituisce in una maniera rispettosa e discreta - anche un grande lavoro di ricerca, teorica e sul campo, come la nota finale redatta dallo stesso autore conferma. Infatti, i paesaggi di questo spicchio di Romania in cui vive la famiglia, le istituzioni che si occupano degli orfani bianchi, il mal d’Italia che è una patologia che colpisce molte delle donne che hanno abdicato al loro ruolo di madri, mogli e figlie per andare a occuparsi di altri figli e altri genitori, sono realtà che si manifestano al lettore nella loro nitidezza e che dimostrano ancora una volta quanto poco sappiamo delle vite di chi entra nelle nostre case e si occupa dei nostri affetti più cari: non solo di braccia, se fosse ancora necessario ribadirlo, si tratta.
In Quando tornerò queste vite sono sviscerate e raccontate nel loro intimo, a partire appunto dal figlio più giovane, Manuel, cui segue la voce della madre, Daniela: donna che apparteneva alla classe media, che svolgeva un lavoro d’ufficio, prima che tutto crollasse, con un marito fisicamente presente, perlomeno all’inizio della storia, ma di fatto assente, che peraltro, con una scelta significativa da parte dell’autore, non assurge mai al ruolo di voce narrante, ma viene solo raccontato dai tre punti di vista. La prospettiva di Daniela mostra, senza alcuna commiserazione, luogo comune o pietismo, quanto faticosa sia la vita di chi si prende cura degli altri, quanto pesi il fardello della lontananza, della propria lingua non parlata, del cibo diverso e offre anche uno spaccato, desolante se non per qualche eccezione, della condizione di solitudine degli anziani, i cui figli delegano ad altre non solo il lavoro di cura materiale, ma anche la responsabilità affettiva. Ed infine il punto di vista si sposta su Angelica, la figlia maggiore: figura centrale, insieme ai nonni – personaggi peraltro di solida sapienza e smisurata tenerezza – nella gestione della situazione familiare in assenza di figure genitoriali. Angelica, senza venire meno al carico di responsabilità che le piomba addosso, riesce comunque a tenere insieme tutti i fili, compresi quelli della sua vita. Il conflitto con la madre è evidente e, da lettori, entrambe le prospettive appaiono legittime: il desiderio di garantire condizioni migliori della prima si scontra con il senso di tradimento e di abbandono della seconda.
Il titolo, sebbene non si configuri come una domanda, lascia sospesi e apre a tutti i dubbi, aspettative e timori che attraversano coloro che lasciano il proprio paese e i propri affetti.