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Serbia hardcore

Editore: 
Zandonai
Luogo di edizione: 
Rovereto (TN)
Anno: 
2008
Traduttore: 
Sergej Roić

Recensione: 

Lo scrittore e giornalista serbo, Dušan Veličković, mostra, come hanno fatto altri suoi colleghi dai Balcani, come la letteratura possa rappresentare criticamente una guerra e le conseguenze che produce sulle persone. E lo fa da spettatore e vittima allo stesso tempo, descrivendo con ironia e acutezza cosa significhi vivere in un conflitto. Serbia hardcore non è propriamente un romanzo, vista la struttura in brevi capitoli, quasi dei flash che immortalano un momento, un incontro, una situazione di ordinaria (si fa per dire) quotidianità, descritti in prima persona e comprensibili autonomamente l'uno dall'altro. Tuttavia tali quadri narrativi, racchiusi in due grandi sezioni, "Amor mundi" e "Portofino" offrono al lettore la sensazione di trovarsi all'interno di una composizione più ampia, in cui ogni tessera si trova al posto giusto e non potrebbe essere altrimenti. L'impressione di leggere una storia sola, fatta di tante storie, va concretizzandosi man mano che la lettura procede, per delineare un quadro chiaro della situazione vissuta in prima persona dall'autore. Non manca a Veličković, come a molti altri suoi ex-connazionali, lo sguardo ironico e sapido con cui osserva il reale e lo traduce a chi non ha idea di cosa significhi vivere un conflitto. Misuriamo tale cifra stilistica nel descrivere il dialogo con un giornalista inviato nei Balcani, che non sembra sapere molto della situazione politica che deve descrivere, ma che si dichiara soddisfatto di quella "specie di lezione: Serbia per principianti" (37) che l'io narrante gli illustra. "Alla fine mi chiede: 'Ma lei, personalmente, come si sente qui a Belgrado sotto le bombe?' Lascio perdere obiettività e semplificazioni, e rispondo: 'Credo che mi sentirei allo stesso modo se fossi a New York sotto le bombe'". (37)
Nemmeno l'atteggiamento critico, che si accompagna inevitabilmente all'ironia, non abbandona mai il nostro scrittore, che non risparmia battute nei confronti del suo popolo: "Ma poiché è difficile credere che il dittatore sia l'unico colpevole per quanto è accaduto nei Balcani, è altrettanto difficile convincersi che il popolo serbo sia del tutto innocente in questa tragedia" (129). Sempre dalla stessa penna, tuttavia, si esprime l'esigenza di evitare bieche generalizzazioni nei confronti dei serbi: "Una sera, ascoltando l'inviato della BBC raccontare quante persone sono state uccise dai serbi, mio figlio si alza in piedi ed esclama con rabbia: 'Perché continuano a dire che l'hanno fatto i serbi? Se la polizia serba ha ucciso qualcuno, se i paramilitari serbi hanno ucciso qualcuno, o se una persona con nome e cognome serbo ha ucciso qualcuno, perché non lo si dice chiaramente? Perché continuano a ripetere che l'hanno fatto i 'serbi'? Anch'io sono serbo, ma non ho ucciso nessuno, e non ucciderò mai nessuno' (42-43).
La posizione di Veličković è quella di un intellettuale attento e all'erta, privo di connivenze con il potere che cerca, con i suoi mezzi, di denunciare. Si respira anche tanta amarezza in queste pagine, che descrivono la sua quotidianità stravolta, in cui "niente corrisponde a ciò che ufficialmente si pretende che sia" (89) e dove i suoi libri, trasferiti in un luogo che credeva sicuro, sono stati requisiti: "Posso solo tirare un sospiro di sollievo. Ai miei libri è stata riservata la fine che i libri, qui da noi, si meritano" (78).
Una ulteriore nota che attraversa i testi è data dalle citazioni di numerosi scrittori e intellettuali che forniscono spunti alla narrazione stessa, come quando Veličković illustra il titolo della prima sezione, "Amor mundi" che si ispira anche agli scritti di Hannah Arendt, autrice che tra l'altro ritorna ancora nel testo. Tali riferimenti appaiono qualcosa che va oltre la citazione dotta, per diventare elementi cardinali, orientanti per l'autore che dalle sue letture trae spunto per scrivere e che fornisce preziose indicazioni al lettore che abbia voglia di scavare ancora nella letteratura e nelle sue tante voci.

Autore della recensione: 
Silvia Camilotti
Presentazione: 

I regimi totalitari uccidono i giornalisti, nel migliore dei casi li licenziano, sempre li condizionano: è quanto racconta Dušan Velićković, direttore della celebre rivista NIN, all'epoca dei Milošević.
In queste rapide e importanti note ci dice che scrivere la verità è in certe circostanze il fattore politico decisivo, perchè il sistema non la ama nemmeno nelle democrazie più avanzate; ci ricorda che i serbi non erano tutti uguali, anche se per noi nel 1999 erano i cattivi per definizione. Solo il diario di Bilijana Sbrlianović sulle pagine di La Repubblica ci richiamava ad una normale e complessa umanità.
Veličković racconta brevi storie scaturite da situazioni reali, scritte sotto i bombardamenti NATO di Belgrado, disegna una comunità nel suo agire quotidiano, con penna leggera nonostante la situazione tragica, con ironia e disillusione: da una parte la dittatura dall'altra le bombe intelligenti dell'Occidente democratico.
"Serbia hardcore" è una versione allargata e aggiornata di "Amor Mundi", uscito nel 1999; è stato pubblicato prima in Italia e poi in Serbia.
Con una nota di Nicole Janigro

Pagine di...: 

"La musica"
Patriottismo: non si ascolta musica inglese e americana quando la NATO ti bombarda, pagg. 68-70
"Anche il sole è nostro nemico"
Potenza dei media: effetti di una campagna mediatica sui pericoli di un'eclissi di sole. pagg. 102-105