L’ultimo romanzo di Adriàn Bravi si colloca nel segno dei precedenti, dimostrando, semmai ce ne fosse ancora bisogno, una maturità letteraria oramai compiuta. Riecheggiano alcuni dei suoi romanzi pregressi in una serie di scelte tematiche e formali: l’acqua nella forma del fiume (L’inondazione), l’elemento surreale (Il levitatore) la riflessione metalinguistica (L’idioma di Casilda Moreria ma anche, per uscire dal genere del romanzo, La gelosia delle lingue). Sono tutti elementi che in questo romanzo – sapiente, tenero e spietato, godibilissimo – si fondono nel raccontare la storia di Ugolino Gasparini, un quindicenne veneziano che dopo un incendio da cui esce deturpato viene fatto imbarcare dal padre nella spedizione di Sebastiano Caboto, che nel 1526 al servizio dei reali di Spagna salpa per le isole Molucche, contravvenendo poi all’impegno preso per inseguire il sogno della ricchezza lungo il Rio de la Plata.
La ricostruzione storica risulta estremamente accurata e, come dichiara l’autore nell’intervista di Alice Pisu dal titolo, emblematico, La descrizione di un mondo con la lingua di un altro, l’intento era la ricostruzione di una cronaca di viaggio: “Il registro di questi eventi è quello che oggi conosciamo come Crónicas de Indias. Ugolino era stato ingaggiato per rendere testimonianza di quel viaggio. Con questo libro ho voluto riprendere le cronache di viaggio per concepirne una nuova.” Non si tratta infatti solo di un reportage, ma Verde Eldorado è anche romanzo di formazione e riscoperta da parte del giovane protagonista che apprende (e ci insegna) che la realtà restituisce sfumature diverse a chi le sa cogliere cambiando prospettiva: si citi ad esempio l’uccisione e la cannibalizzazione dei compagni di viaggio di Ugolino, cui lui assiste, dopo che sono stati presi prigionieri da alcuni indios durante una sosta lungo il Rio de la Plata. Pur senza negare l’orrore, Ugolino, col tempo, prova perlomeno a comprendere, senza giudicare quella azione. Il suo sguardo, mai giudicante ma interrogativo, alterna il candore alla saggezza ed arriva a mettere in discussione, o perlomeno relativizzare, il concetto stesso di civiltà, nonché a rileggere la sua storia come la faticosa ricostruzione di una nuova identità, di cui va fiero: “Credo sia andato tutto per il verso giusto. Non c’era alternativa dopo l’incendio” (110). Ugolino, a posteriori, quando capisce che “il passato è diventato una terra straniera” (117) trova un senso al suo essere stato deformato dalle fiamme, capisce che il destino che avrebbe avuto in patria sarebbe stato di isolamento e vergogna e comprende che non è uno sfigurato ma uno a cui gli dei hanno salvato la vita dalle fiamme per dargli il potere di proteggere gli altri dalle stesse: è questo che gli trasmettono gli indios, lo sguardo che gli restituiscono.
Il tutto viene raccontato con una lingua speciale, dal lessico ricco, resa duttile e piegata alle esigenze di Ugolino di descrivere realtà inedite agli indios ma anche al bisogno di interpretare quel nuovo mondo che lo ha inizialmente traumatizzato con la sua violenza, ma in cui poi si inserisce. Una lingua che serve a capire, a farsi capire e anche a scrivere, perché la pratica della scrittura viene subito ripresa dal protagonista, non appena gli si offre l’occasione. Si innamora persino della lingua degli indios dichiarandolo (152) ma non smettendo di interrogarsi: “Per questo ho sempre pensato che si trattasse di una lingua non ancora nata del tutto, come una lingua in gestazione, o impantanata, destinata a prendere altre pieghe o perdersi. Forse, qui non hanno ancora compreso che attraverso la lingua si può governare l’ingovernabile.” (118)
Immagine potente quest'ultima, che scaturisce non solo dalle ampie riflessioni che Bràvi ha dedicato al tema della lingua, ma forse anche dall’aver vissuto in prima persona quel senso di spaesamento che la migrazione comporta e che rende più attenti ed empatici verso le potenzialità offerte dall'apertura verso una nuova lingua e tutto il suo universo.