madrelingua («proprio così, con la “m” minuscola», precisa l’autore) è un romanzo che non è un romanzo, ma – paradossalmente – è forse, oggi, l’unica narrazione lunga possibile, in un mondo sempre più veloce, parcellizzato, relativo: liquido, per dirlo con Bauman. Dunque, se per romanzo intendiamo un’epica del mondo contemporaneo, uno sguardo lucido ed obliquo sulla realtà che viviamo, il romanzo deve necessariamente mutare forma per farsi interprete di questa crisi che è della società, dell’individuo-persona, ma anche letteraria ed intellettuale. Quel che Julio Monteiro Martins fa è, quindi, un’operazione sottilissima ed acuta, ma coraggiosa soprattutto: perché rivendica (finalmente!) il ruolo di intellettuale dello scrittore, nonché la capacità della letteratura di intervenire e commentare il presente più immediato, seppur con ironia e disincanto. Egli gioca, nelle sue pagine, con i personaggi, gli sfondi, le ambientazioni e le situazioni, che rimangono sempre sospese, nascono e vivono senza concludersi, aperte alle infinite possibilità della vita e della creazione. Il tutto contrappuntato dal continuo intervento metaletterario dell’autore, che tra parentesi quadre si prende gioco di personaggi e finzioni letterarie, denunciandone la natura immaginativa ed i comportamenti paradossali.
"La storia del romanzo, così com’è stata raccontata finora, è la storia dei romanzi finiti […]. E’ quindi una storia parziale, che esclude e ignora quei più di due terzi di romanzi scritti e mai conclusi, abbandonati a metà strada, ingarbugliati su se stessi, troppo sconvolgenti per i nervi dei loro autori, di sbilenca architettura, ossessionati da cose che non interessano a nessuno, anacronistici, demenziali, avanguardisti fino all’estremo, diffidenti delle possibilità del romanzo come genere, troppo banali, o troppo poco banali per le esigenze contemporanee."
Monteiro Martins ci racconta così la storia degli ‘umili letterari’, la narrativa nella Narrativa, oltre che la storia nella Storia, giocando, quindi, anche con la stessa riflessione metaletteraria, che si fa ora divertita, ora ironica, ora pungente, per mettere in luce i problemi della scrittura e della letteratura: perché la crisi del romanzo «è anche la crisi della letteratura […]: non è più possibile scrivere un romanzo, e non è più possibile non scriverlo. Diciamo quindi che questo libro è storia letteraria “a caldo”, come certi reportage di guerra».
E diciamo pure che quest’opera è una storia a caldo della nostra Italia, dell’Italia del berlusconismo, della banalità in cui lentamente ci immergiamo: un testo che non ha paura di dire e di denunciare, che si interroga sulla travagliata morfologia dell’opera d’arte, della nostra vita liquida e della nostra Italia: «le sue esitazioni – tutto questo andirivieni di voci narranti – sono le stesse della vita (toh… e la nostra Italia non è poi rimasta impigliata anch’essa in una grottesca morfologia? Siamo quindi anche noi emblematici dei tempi che corrono)».
Non è forse un caso che uno sguardo così lucido e dissacrante sul nostro presente ci venga da uno scrittore nato in Brasile, translingue, transculturale e rizomatico per antonomasia, testimone nella sua gioventù di una dittatura ed ora capace di riconoscerne e denunciarne i caratteri in un’altra, mutatis mutandis.
madrelingua è allora, anche, la necessità di essere madrelingui con la m minuscola, in un tempo in cui le lettere maiuscole sono solo un retaggio scolastico che non ha corrispettivo nella realtà.