Due voci si alternano di capitolo in capitolo: una maschile, l’altra femminile; una siciliana, l’altra egiziana; una più pragmatica e compatta, l’altra più sfaccettata, ironica, a volte sarcastica. La voce narrante si biforca in due diverse sensibilità (maschile e femminile) e due diverse culture (italiana ed egiziana), che osservano il mondo da angolazioni diverse pur in presenza di pensieri, argomenti, fatti comuni.
La ‘corrispondenza d’amorosi sensi’ tra Issa e Sofia, infatti, è praticamente solo mentale, pochissime essendo le occasioni di incontro e dialogo tra i due, ed è determinata da un fatto fondamentale: nessuno dei due si chiama con il proprio vero nome. Tratto comune, questo, anche al protagonista del primo romanzo di Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio: ma mentre lì lo svelamento dell’identità arrivava, tragicamente, alle ultime pagine, qui la bella Sofia dichiara fin dalla prima pagina, e con grande ironia, il ‘regalo’ italiano del suo nuovo nome: «Come ti chiami?», «Safia», «Sofia! Che bel nome!». Entrambi, comunque, sono nomi parlanti e ci dicono qualcosa del personaggio: Sofia è una sognatrice come la Loren (p. 26) e, come Safia Zaghloul, vuole togliersi il velo.
Il cambio di nome di Issa, viceversa, è puramente strategico: Christian è un siciliano che parla perfettamente l’arabo con accento tunisino. Lavora al tribunale di Palermo come traduttore, ma d’un tratto una proposta gli cambia la vita: fare l’infiltrato in una comunità musulmana a Viale Marconi, dove si nasconde una cella terroristica che prepara un attentato a Roma. La questione è delicatissima, e Christian accetta l’incarico divenendo Issa (corrispettivo arabo di Gesù, e, in qualche modo, anche del suo vero nome, Cristiano).
A ben guardare, quindi, il cambio di nome dei due protagonisti non è poi così diverso: per fini diversi ciascuno ha bisogno di integrarsi nella nuova comunità di appartenenza e di crearsi una nuova vita, una nuova identità.
Ma questa storia d’amore, intessuta con grotteschi risvolti da commedia all’italiana (e da Divorzio all’italiana), è solo lo sfondo di un ben più complesso e multiprospettico noir il cui vero protagonista è l’ambiente: una Roma multietnica dove dialetti e lingue si mischiano, e la convivenza tra le culture si incarna in personaggi materici. E’ proprio grazie al focus su luoghi (il call-center Little Cairo, la casa dove Issa vive insieme a otto egiziani, un senegalese ed un bengalese) e personaggi che Amara Lakhous riesce a scardinare luoghi comuni dall’interno e con ironia, mostrandoci come molte differenze tra il ‘noi’ ed il ‘loro’ possano essere più sfumate di quanto non si creda. Ciascun personaggio è, infatti, portatore di una visione della vita, di una sua prospettiva dei fatti, di una sua storia e parla un suo dialetto, che lo caratterizza come ‘tipo’. La cadenza di Issa ricorda fortemente quella di Mastroianni in Divorzio all’italiana e Sofia (Loren?) lo chiama «il Marcello arabo»: il gioco col modello della commedia all’italiana è quindi scoperto ma palesemente capovolto: perché il divorzio avviene, ma ‘all’islamica’, eppur ci riporta ad interrogativi e contraddizioni molto simili a quelli che poneva il film di Pietro Germi, ‘all’italiana’; perché Issa è siciliano ma non è il marito falsamente geloso pronto a piegare la legge a suo beneficio (ed anzi, da questo punto di vista è più Sofia a prendere la parte di Fefè, con un ulteriore significativo ribaltamento); perché laddove sembra esserci la commedia c’è la vita, e la vera messinscena è dove meno ce lo saremmo aspettati. Il finale rimane aperto, costringendo il lettore a ribaltare nuovamente il punto di vista e a «riavvolgere il nastro dall’inizio». Con qualche interrogativo in più, però.