Una testimonianza di Veronica Ciubotaru
Ascoltata e trascritta da Maria Serena Tait
La mia infanzia e il mio percorso scolastico si collocano tra gli anni ’80 e ’90, un periodo che veniva già considerato di crisi del socialismo, ma che noi bambini vivevamo come perfettamente organizzato e molto preciso. Le classi erano divise in gruppi, ciascuno con un piccolo leader che doveva aiutare e sostenere i compagni più deboli e richiamare quelli che combinavano qualche marachella… C’era anche il leader della classe e un gruppo che aiutava a gestire l’attività del doposcuola e della ricreazione, organizzando i giochi dei compagni, in particolare di quelli più piccoli, e facendo attenzione all’ordine. Naturalmente c’erano sempre anche gli insegnanti ma il leader godeva di molta autonomia, cosa che ci faceva sentire importanti e che aiutava a preparare i futuri cittadini e a creare il senso di appartenenza alla comunità. Non bastava acquisire capacità e conoscenze ma, come ci ripeteva sempre uno dei professori, “prima di tutto dovete avere dignità umana, essere uomini”.
Nel periodo estivo per gli scolari e gli studenti delle elementari e delle medie venivano organizzati dei soggiorni gratuiti molto pubblicizzati con i genitori dove, oltre a divertirsi con giochi ed escursioni, si andava anche ad aiutare le persone anziane per educare all’attenzione verso la generazione che aveva costruito la società e garantito il benessere nel quale vivevamo.
I ragazzi delle scuole superiori erano organizzati per l’estate in campi di lavoro. La mattina ci incontravamo tutti con le zappe e il comune ci assegnava un terreno da zappare, che poteva essere coltivato a mais o girasoli, e dopo venivano a portarci da mangiare e alle tre ci riaccompagnavano a casa e ci pagavano. Era faticoso, perché lavorare nei campi è sempre stato faticoso, però tornando a casa si raccontava ai genitori “Guarda che anch’io ho zappato” e, oltre a darci un senso di dignità e di orgoglio, l’esperienza permetteva di imparare a fare i contadini per poter lavorare un domani per la propria famiglia. Chi non era portato per lo studio poteva restare ad abitare in campagna, vivere lì, lavorare nei Kolkhoz e questa preparazione era perfetta per quel tipo di lavoro. Alla fine negli ultimi due anni si imparava a guidare e usare il trattore o altre macchine e praticamente tutti i maschi, una volta finito il percorso delle superiori, avevano la patente per lavorare su macchinari agricoli o altri su macchinari industriali.
La maggior parte delle persone che abitavano in campagna alla fine del percorso scolastico avevano una professione. Dopo la terza media si potevano frequentare le scuole professionali o i collegi tecnici ed era un periodo di maturazione della personalità perché gli studenti dovevano andar via di casa e rendersi autonomi. Le scuole avevano un convitto dove i ragazzi dormivano, mangiavano e la sera si preparavano i pasti e si lavavano la biancheria. Ogni fine settimana potevano andare a casa ma, se la famiglia non disponeva di molto denaro o abitava troppo lontano, tornavano in famiglia solo una o due volte al mese e anche questa era un’esperienza formativa che adesso purtroppo manca ai nostri giovani, che sono più deboli e meno autonomi.
Alla fine del percorso scolastico, che fosse scuola professionale, collegio, università o corsi superiori di laurea, i giovani venivano collocati su tutto il territorio nazionale dove c’era necessità della loro specializzazione professionale. Quando arrivava un giovane specialista in una località, che fosse commesso nel negozio o medico o professore o agronomo, il comune doveva assicurargli un posto dove abitare e in alcuni comuni più ricchi ci poteva essere anche la casa degli specialisti con diversi appartamenti. Il mio paese aveva una superficie di 5 km quadrati e quindi c’erano due scuole; per raggiungere la mia percorrevo il “Viale dei Professori”, che era la strada centrale del paese, dove sui due lati abitavano varie coppie di “specialisti”: due insegnanti, un’insegnante e il dottore, un’insegnante e un agronomo, ecc. che, dopo essere stati mandati lì per lavoro, si erano conosciuti, sposati e avevano messo radici costruendosi la casa nel terreno assegnato dal comune.
Tutto questo purtroppo è finito con la profonda crisi del vecchio sistema comunista negli anni ’90. Si sono chiuse le fabbriche e si sono sciolti i kolchoz, le cooperative sociali, e è stato distrutto tutto ciò che apparteneva al passato, senza distinguere tra cose positive e cose negative, e anche il sistema scolastico non è più quello di prima. Se un popolo ha potuto coronare il sogno di tornare alla propria lingua e all’alfabeto latino originario, le persone che avevano seguito il percorso scolastico dopo il ’41, con l’alfabeto cirillico, si sono ritrovate per la maggior parte analfabete, o hanno studiato l’alfabeto latino da autodidatte. Io, ad esempio, che nel 1989 avevo finito il percorso scolastico delle superiori, sono andata all’università facendo l’esame di ammissione con l’alfabeto cirillico e l’anno successivo con il 1° settembre siamo passati ad un altro alfabeto. Ci sono stati dei percorsi di formazione televisiva, ma la cosa non è stata gestita e organizzata in modo perfetto, come sarebbe successo nel periodo comunista. A questo punto il livello culturale del paese si è degradato e la maggior parte della popolazione ha smesso di leggere. Mia mamma continua a leggere anche adesso perché aveva frequentato la scuola rumena e quindi tornare all’alfabeto latino non è stata una grande fatica, ma per tanti altri sì. I giornali sono tutti scritti in caratteri latini, le biblioteche sono state rinnovate e tutta la letteratura scritta in caratteri cirillici è stata distrutta. Ma il problema più grande non è che mio padre, che adesso ha 75 anni, possa leggere i giornali, perché ormai è arrivato alla fine del suo percorso, il problema più grande è che la giovane generazione non è preparata per il proprio futuro. Mancano la motivazione, lo spirito di volontariato, la voglia di agire per il bene della comunità e della società. Tutto questo è sparito nel nulla e, se qui in Italia il volontariato è molto sentito, da noi questa cosa ricorda il periodo sovietico e allora non si deve più fare. È molto difficile adesso parlare del bisogno di recuperare l’esperienza della vecchia società per crearne una nuova nella democrazia. Hanno perso, un po’ come dappertutto, la fiducia nei politici, anche perché questi politici non sono molto esperti e cambiano partito e idee a seconda del proprio tornaconto. Impostano le campagne elettorali, che prima con il partito unico non si potevano fare, sulla diffamazione degli altri e così creano sfiducia verso tutta la classe politica.