Tu sei qui

Mille e uno Paradisi

di Gracy Pelacani

La verità è che non lo sapeva nessuno come sarebbe stato.
La verità è che l’immaginazione, per quanto libera, nei confronti della realtà sta sempre un passo indietro. O forse sta sempre troppi passi avanti. Sia come sia, fu così che andò questa storia, che poi è la mia, un pezzettino della mia.

 

Si fa presto a dire Paradiso, che di versioni del Paradiso ne esistono tantissime, una per ogni essere umano che vive su questa terra. Io sarò anche piccolo, ma questa cosa l’ho imparata presto e non me la dimentico più.

Era un giovedì, che è il giorno in cui la maestra dà indietro i temi che facciamo ogni lunedì, ogni settimana, ogni mese dell’anno.

A scuola me la sono sempre cavata abbastanza bene, perché a casa mia dell’importanza di una buona istruzione si faceva un gran parlare. Che dai temi del lunedì e dalle operazioni di matematica dipendesse così tanto il mio futuro io non è che ci credessi poi tanto, ma il tono della mamma era così serio e i suoi occhi così speranzosi che non osavo contraddirla quando me lo diceva, e ce la mettevo tutta.

Così quel giovedì ero tranquillo. Aspettavo che arrivasse il mio turno per andare alla cattedra a ritirare il mio tema. Stavo quasi alla fine dell’elenco, quindi avevo sempre un poco da aspettare. Poi, rispetto ad altre volte, l’argomento assegnatoci quel lunedì mi era proprio piaciuto: descrivi il Paradiso. Non ebbi nemmeno bisogno di fare la brutta copia, e non appena sentii l’argomento mi venne in mente subito tutto quello che avrei voluto scrivere. A me, com’era fatto il Paradiso, mi sembrava di saperlo benissimo.

Ma la maestra arrivò in fondo all’elenco senza pronunciare il mio nome. Non si sarà accorta di avermi saltato, pensai. Allora alzai la mano, ma lei non mi lasciò nemmeno il tempo di aprire bocca e disse: ne parliamo alla fine della lezione.

Ecco, pensai, le doppie, di sicuro, saranno state quelle. Accidenti a me. O i verbi. O la calligrafia, magari. Qualcosa doveva essere successo, perché così la maestra a me non mi aveva mai parlato. Mi agitai fino alla fine dell’ora, e al suono della campanella quasi mi precipitai alla cattedra. Lei prese il mio tema, e me lo mise davanti. Non sufficiente c’era scritto, in rosso, sopra al mio nome. La guardai sconcertato. Possibile? Ma se avevo riletto due volte, mi dissi. E già mi immaginavo lo sguardo deluso di mia madre.

Alzò la testa, mi guardò, e poi disse: Yasir, perché non hai chiesto se non avevi capito l’argomento del tema? Sei sempre andato così bene, e in questo compito non c’è nemmeno un errore di grammatica. Però non hai rispettato la consegna. Vi avevo chiesto di raccontare com’è il Paradiso, invece tu ti sei messo a descrivere casa tua, la scuola e dove giochi con i compagni il pomeriggio. Io davvero non capisco.

Ero sconcertato quanto lei, e non capivo a mia volta. Ché ci fossero altri Paradisi da descrivere io proprio non lo sapevo.

 Eravamo arrivati solo due anni prima la mamma e io, ma lei di come sarebbe stato vivere qui era proprio da tanto tempo che me ne parlava. Ogni sera, quando mi metteva a letto, mi raccontava di questo posto chiamato Svezia, che io non sapevo dove fosse, ma dai suoi racconti mi sembrava bellissimo. C’è tanto verde e spazio per giocare, mi diceva, e potrai andare a scuola, e avrai anche una stanza tutta tua. All’inizio le chiedevo sempre se anche papà ci sarebbe stato, ma smisi quasi subito perché gli occhi le si riempivano di lacrime ogni volta, e riusciva solo a dirmi vedrai che andrà tutto bene. Ma chissà se ci credeva per davvero.

Lui era partito un anno prima, ed era da mesi che non avevamo sue notizie. Un amico che aveva fatto il viaggio con lui era morto, la barca era affondata poco prima che arrivassero i soccorsi. Questo lei non me lo disse mai. Ma un giorno che la sua famiglia venne a casa nostra, io mi misi a origliare da dietro la porta. Lo so che non è una bella cosa da fare, ma mi mancava mio padre, e volevo sapere anche se ero piccolo.

Per una settimana, la sera, non mi raccontò più nulla. Poi ricominciò a parlarmi della Svezia, in un modo che me la fece immaginare ancora più bella di prima.

 E andò tutto bene per davvero, ma fu tutto così veloce che ci sono pezzi che nemmeno mi ricordo più. Mi rimase solo impresso lo sguardo di mia madre in risposta a quello della guardia di frontiera all’aeroporto.

Passaporto, prego. Il bambino è con lei?

Sì, è mio figlio.

Visto per ricongiungimento familiare vedo. È così?

È così, rispose con quel suo tono che non ammetteva repliche.

Vi aspetta qualcuno?

Ci viene a prendere mio marito.

Mi dissi che, prima o poi, sarebbe capitato un altro tema del lunedì dove avrei potuto raccontare alla maestra questa parte della storia. E, forse, poi avrebbe capito che io la consegna l’avevo compresa benissimo. Ma per il non sufficiente, questa volta, non c’era proprio niente da fare.