di Ambra Moser
Voglio continuare a sonnecchiare. Voglio continuare a sonnecchiare così magari quarantadue ore di treno passano più in fretta. Gli occhi li tengo serrati ché se li apro poi non li richiudo più e addio dolce dormiveglia che mi tieni più di là che di qua. Tienimi lì ancora un po’, anche quando passa il venditore di chai che strilla e sbatte il secchio unto per tutto il corridoio del treno.
“CHAI CHAI CHAI GARAM CHAI!”.
E allora alzo la testa che fino a poco fa seguiva il ritmo delle rotaie ciondolando sulle ginocchia. Le gambe piegate e compattate come lenzuola stirate me le tengo tra le braccia per ottimizzare gli spazi nel mio posto-corridoio da condividere con Ale.
Da condividere con Ale e il suo zaino da venti chili e il mio da otto e la mia borsa a tracolla e la sua con la macchina fotografica che stiamoci attenti che non deve sparire. Il mio posto lungo il corridoio la cui superficie misura un metro quadro e un piatto di riso a farla grande.
“CHAI CHAI CHAI GARAM CHAI!”.
Il venditore si ferma e versa il thè con il latte che profuma di zenzero e spezie agli indiani nei posti di fronte. Uno di loro allunga qualche decina di rupie all'ambulante, pagando tutto il giro del dopocena.
Ci sono due bicchierini fumanti anche per noi, che ringraziamo un po’ in inglese, un po’ in hindi e un po’ sorridendo inebetiti mentre quello del chai, che ha ripreso a strillare, si allontana trascinandosi lungo il corridoio.
“CHAI CHAI CHAI GARAM CHAI!”. Vagone dopo vagone.
È ora di coricarsi, qualche luce al neon si spegne e il tono di voce si abbassa. Cerco di riprendere sonno tra il sobbalzare continuo e la musica tutta flauti e sitar messa su da un cellulare.
Alle sette del mattino il finestrino mi mostra solo donne avvolte in meravigliosi sari; dei preziosi kurta dai colletti ricamati del nord quasi non vi è traccia. Tutti in fila i venditori ambulanti sbattono i secchi e strillano, al loro passaggio resta un forte odore di masala e frittura. Mi apro un varco tra la folla e mi dirigo verso le porte, che stanno sempre aperte. Il treno sfreccia, ora sui campi aridi, ora davanti ai villaggi. Le donne in sari mi ricordano le formiche operaie con quelle ceste stracolme di frutta e verdura sulla testa. Poi le case dei piccoli agricoltori e le pagnotte di sterco di vacca tutte in fila a seccare al sole.
Un uomo mi si avvicina incuriosito.
“Which country you belong?“. Perchè gli indiani appartengono alla loro nazione, mica come noi che veniamo da...
“I’m from Italy”. Non afferra. Ripeto, “Itly!”, mangiandomi la A.
“Ooh Itly, Itly, Sonia Ghandi!” risponde lui. Mi chiede cosa si mangia in Italia, che lingua si parla, se mi piace l'India, il cibo indiano e perché sono così lontana dalla mia famiglia se ho solo diciannove anni. Lui è un ingegnere di quarantadue anni con la curiosità di un bambino di dieci.
“SAMOSA SAMOSA GARAM SAMOSA!”. L'uomo ferma il venditore e mi mette in mano due triangolini di pasta fritta ripieni di patate speziate. Paga con una manciata di monete mentre il treno si avvicina alla prossima stazione. Vorrei condividere lo spuntino ma lui rifiuta, sono ospite nel suo paese, quindi sua ospite, quindi è in dovere di offrire.
“Dhaneavad”. Il treno si ferma, l'ingegnere è pronto a scendere. “Welcome in India! All the best!”. Dalla porta lo guardo sparire nella folla brulicante mentre il treno fischia e riprende la sua corsa. Una nuova orda di venditori di chai torna al lavoro con la stessa incessante cantilena.
Io guardo l'India che corre fuori dalla porta. La guardo gustando i samosa speziati che sanno di frittura e accoglienza. Guardo l'India che si lascia ammirare pienamente da una porta aperta sui binari, che non ammette vetri, né protezioni.
Guardo questi uomini incravattati ancora curiosi come bambini e mi chiedo se mai un giorno, anche nel nostro lontano mondo occidentale, arriveremo a trattare lo straniero come un ospite prezioso.