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Trentini nel mondo

Quando gli immigrati siamo noi

L’esperienza di Giorgia in Australia

di Giorgia Simoncelli*

Esatto,siamo, non eravamo..Quando si parla di immigrazione, una delle frasi che si sente ripetere più spesso è “gli italiani hanno la memoria corta”, espressione che di riferisce in particolare all’emigrazione di massa di fine ‘800 e inizio ‘900 verso l’America, emigrazione che pare essere caduta nel dimenticatoio della nostra storia, una storia nemmeno poi così remota. Italiani con la valigia di cartone e un biglietto di sola andata verso un sogno da realizzare, con il cuore pieno di speranze, ignari delle mille difficoltà che li avrebbero attesi nella grande America.

Ci chiamavano W.O.P. (Without Papers, letteralmente “senza documenti”), all’arrivo c’era la quarantena e mille difficoltà, la lingua innanzitutto, e soprattutto il razzismo, piaga sociale che travalica il tempo e la geografia. Uomini e donne alla ricerca di una vita migliore, chi per scelta, chi per costrizione, chi per necessità. Esattamente come migliaia di persone oggi affrontano viaggi che hanno dell’inverosimile per raggiungere la rigogliosa Europa, sicuri di trovare un lavoro e delle condizioni di vita migliori, oppure solo la pace, ignari della giungla burocratica e delle difficoltà da affrontare all’arrivo. Il paragone tra i due flussi migratori può sembrare banale, eppure lo ritengo necessario per fare luce su un’altra sfumatura moderna, quella dell’emigrazione italiana giovanile.

Migliaia che ogni anno decidono di lasciare il Bel Paese per rassegnazione, disperazione, o semplicemente per la curiosità di una nuova esperienza. Fra questi giovani ci sono anch’io. Dopo sei anni vissuti in Spagna, ho deciso di lasciare tutto e partire verso la terra dei canguri, la quale rappresentava in un certo senso la mia “America”. Ho ottenuto il cosiddetto Working Holiday Visa, un visto che permette ai giovani di restare un anno in Australia lavorando con qualsiasi tipo di contratto. Il governo australiano inoltre, permette di rinnovare il visto per un altro anno a patto che si lavori 88 giorni in un’azienda agricola, nella pesca, nell’edilizia o nelle miniere (di cui li Paese è ricco) in una zona rurale dell’Australia. In pratica, a patto che si svolgano lavori che gli australiani non vogliono fare, in zone in cui gli australiani probabilmente non vogliono andare.

I backpackers, ovvero i viaggiatori zaino in spalla, costituiscono ufficialmente più del 25% della manodopera agricola, anche se credo che le cifre reali siano molto più alte. Ottenere un normale visto di lavoro in Australia è molto difficile, e da quest’anno lo è ancora di più, considerate le ulteriori restrizioni introdotte dall’attuale governo piuttosto nazionalista. Per questo motivo, le cosiddette farm (le aziende agricole) sono un buon modo per ottenere un’estensione della permanenza in Australia, anche senza particolari qualifiche scolastiche o lavorative. Migliaia di giovani di tutto il mondo sono disposti a spaccarsi la schiena facendo lavori che probabilmente mai avrebbero immaginato di svolgere, e che quasi certamente non svolgerebbero mai nei loro Paesi d’origine.

Raccogliere angurie, portare caschi di banane pesanti più di 60 kg sotto il sole tropicale, raccogliere limoni in mezzo a piante popolate da serpenti e ragni non sempre innocui, impacchettare frutta e verdura in fabbrica con turni al limite dello schiavismo, piuttosto che raccogliere pomodori. Lavori che in Italia di solito sono svolti dagli immigrati...e in Australia? Anche. Con la differenza che qui gli immigrati siamo noi. Siamo noi che veniamo spesso sfruttati, sottopagati, costretti a lavorare in condizioni che gli australiani non accetterebbero mai, in nome di un visto e di un sogno. Finora ho lavorato in tre farm, ho raccolto peperoncini inginocchiata tutto il giorno a 30 gradi con la possibilità di usare il bagno solo una volta al giorno, ho trasportato secchi di pomodori da 20 kg, tagliato mazzetti di basilico a suon di insulti e minacce di licenziamento costanti.

Una farm mi deve tutt’ora mille dollari, guadagnati sotto il sole cocente del Queensland, e per averli dovrò andare in tribunale, affrontando un labirinto di burocrazia. Qui gli immigrati siamo noi, non votiamo ma paghiamo le tasse, contribuiamo enormemente allo sviluppo del Paese (non solo nel settore agricolo) ma siamo invisibili. Abbiamo spesso una laurea e veniamo insultati da contadini con la terza elementare che si ritengono superiori a noi solo perché sono nati qui.

Diversi flussi migratori, stesse chiusure mentali, stessa paura del diverso. Vengono qui a rubarci il lavoro! Quante volte l’ho sentito dire. Sto attualmente lavorando in una fabbrica dove un turno di 9 ore viene considerato giornata corta, di solito ne facciamo 10 o 13, e ci riteniamo fortunati perché ci danno sempre una pausa ogni tre ore e la pausa pranzo. Siamo più di 80 operai, e gli australiani sono due, le due supervisor. La settimana scorsa ho lavorato 64 ore in sei giorni, non abbiamo nemmeno avuto il tempo di fare la spesa perché non siamo mai rientriati quando i negozi erano ancora aperti. Non mi sento di rubare il lavoro a nessun australiano, anzi gli australiani che conosco dicono apertamente che non farebbero mai dei turni o dei lavori del genere. Situazioni già viste, frasi già sentite, solo che ora è tutto al contrario. 

 

*Poliglotta e instancabile viaggiatrice fin dall’infanzia, Giorgia Simoncelli è laureata presso La Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell'Università degli Studi di Trieste.