Tu sei qui

Nessuno al mondo

Autore: 
Editore: 
Einaudi
Luogo di edizione: 
Torino
Anno: 
2006
Traduttore: 
A. Sirotti


Recensione: 

Il romanzo dello scrittore di origini libiche, Hisham Matar, racconta un pezzetto della storia del paese - oggi più che mai sotto i riflettori - da cui i suoi genitori sono partiti. In realtà, l'autore non descrive la Libia dei nostri giorni, ma fa fare al lettore un passo indietro, ancora più significativo alla luce dei fatti di questi mesi, in cui si parla dell'ascesa al potere di Gheddafi a partire dalle conseguenze che essa provoca nella famiglia di Suleiman. Questi è un bambino che spesso non capisce i comportamenti anomali della madre Najwa, a cui è legato da un profondo senso di protezione e di cui impara a capire lentamente le ragioni delle sofferenze: "Quando sarò grande ti porterò in Scozia. Te lo giuro sulla mia vita. Poi mi tornò in mente quando l'avevano segregata; ogni fantasia sul futuro faceva rivivere il sogno originario: salvare la ragazza che era stata un tempo" (160) Alla madre infatti fu imposto un matrimonio precoce con un marito ora spesso assente "per lavoro"; in realtà quest'ultimo è impegnato nel sostegno della lotta contro il regime, che sta inasprendo le misure contro i ribelli. Il padre di Karim, il più caro amico di Suleiman, viene portato via e giustiziato pubblicamente dopo un processo farsa, senza che Suleiman riesca a capirne le ragioni e provocando in lui comportamenti al limite dell'autodistruzione. La scrittura di Matar dipinge senza tentennamenti le paure, le angosce e soprattutto i gesti irrazionali che il giovane protagonista - privo di punti di riferimento - compie: "Attenzioni. Credo che fossero ciò che mi mancava. Calde, costanti e immutabili attenzioni. In tempi di sangue e lacrime, in una Libia piena di uomini coperti di lividi e imbrattati di urina, pressati dalle necessità e bramosi di sollievo, io ero il bambino ridicolo affamato di attenzioni. E per quanto non ragionassi ancora in questi termini, la mia autocommiserazione si era corrotta in un disprezzo per me stesso" (159-160). Anche suo padre verrà portato via, verità che a Suleiman viene taciuta, sebbene egli non si dia pace e desideri con tutto se stesso risposte. Dinanzi trova solo un muro, quello materno, che contribuisce ad accrescere la sua confusione. I genitori, che riusciranno ad un alto prezzo a riunirsi e a trovare un po' di quella serenità che il loro matrimonio non aveva mai conosciuto, mentono ancora una volta a Suleiman, imbarcandolo per l'Egitto, affidato alla famiglia del fidato amico Mussa. Il motivo di questo viaggio, descritto al bambino come una occasione per visitare il paese, è molto più amaro e prevede l'allontanamento senza l'opzione del ritorno in una Libia che ha perduto ogni garanzia democratica e che appare, a tutti gli effetti, una dittatura repressiva. In una delle pagine finali del romanzo, il protagonista, adulto e emigrato ormai da anni in Egitto senza essere mai potuto rientrare a casa, riflette sulla cecità di un regime che ricorre ancora all'arma del ricatto e della minaccia, senza tuttavia sortire effetto alcuno: "La cosa più sorprendente fu come riuscii a liberarmi del tutto dalla Libia […] Il nazionalismo è come un filo sottile: sarà per questo che molti sono convinti di doverlo difendere strenuamente. Non cercavo né evitavo i libici che vivevano al Cairo, persino quando venni a sapere che l'ambasciata aveva un dossier su di me. Ero schedato come 'disertore' perché non rimpatriato per il servizio militare. Quando poi diventai troppo vecchio per essere arruolato, ma ancora troppo giovane per essere perdonato, un decreto stabilì che se intendevo ritornare, avrei dovuto trascorrere in prigione lo stesso periodo della leva. E come tutti i libici che non ritornano, l'ombra del sospetto cadde stabilmente su di me, rafforzata da ancora un altro decreto, promulgato quando avevo quattordici anni, che prometteva a tutti i 'cani randagi' che rifiutavano di tornare che sarebbero stati braccati. I decreti diventavano sempre più disperati. La mossa successiva del governo fu rifiutare ai miei genitori il visto di uscita dal paese, tenendoli in ostaggio, per così dire, finché il randagio disertore si fosse fatto vivo. Perché il nostro paese ci desiderava così ardentemente? Cosa potevamo dargli che non ci fosse già stato preso?" (218) È tristemente significativo che un paese tratti i propri cittadini in modo tale da spingerli a dimenticarlo, cancellarlo, pur mantenendo uno sguardo, da lontano, carico di pena dinanzi alle ultime disperate mosse di un regime che tenta in tutti i modi di tenersi insieme. Le risposte a questo romanzo arriveranno presto, ci auguriamo, con il loro carico di giustizia.

Autore della recensione: 
Silvia Camilotti