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Rifugiati. Voci dalla diaspora somala

Editore: 
Meltemi
Luogo di edizione: 
Roma
Anno: 
2003
Traduttore: 
A. Di Maio

Recensione: 

“Con questo racconto mi auguro di riuscire in qualche modo a imporre un certo ordine sull’anarchia somala, nella sincopata e consapevole presunzione che la persona la cui storia viene raccontata non muore mai. Dunque vi sono le voci dei profughi, degli esuli, di chi, pur rimanendo in Somalia, vi ha comunque dovuto cercare un rifugio lontano da casa. Ve le scrivo con umiltà, ve le servo come sono, senza edulcorarle, sofferenti, offese, con tutte le loro lacrime. Quella che leggerete è una nazione di narrazioni messe insieme per riscattare, per redimere. È un oceano di storie narrate dai tanti somali disseminati lungo la strada.” (p. 21).Queste alcune delle parole che l’autore somalo Nuruddin Farah scrive nella prefazione a Rifugiati, romanzo, inchiesta, insieme di interviste - difficile classificare il testo in una sola categoria - in cui egli dà, letteralmente, voce al suo popolo.Gli interlocutori di Farah sono numerosi quasi quanto i luoghi in cui essi si trovano, (Italia, Svizzera, Svezia, Inghilterra, Kenya, Somalia) accomunati tuttavia dalla medesima condizione di displacement. Se si pensa allo status di rifugiato ciò che viene subito alla mente è infatti l’idea di dispersione, frammentazione, diaspora. Quello che, invece, fa da sfondo al testo è l’idea di collettività, (“testo corale” viene definito nella introduzione da Alessandra Di Maio) che trova espressione nelle voci degli individui intervistati: viene così a crearsi un equilibrio tra le istanze del singolo e quelle del popolo a cui quel singolo appartiene.Rifugiati, oltre ad avere il merito di dar voce a persone che ne sono state private, crea un’occasione di riflessione su eventi storici a noi, italiani in primis, tanto vicini quanto dimenticati; il riferimento, in particolare, va al “disastroso, umiliante, brutale” (p. 98) colonialismo italiano. In questo senso, nell’opera di Farah si fondono tanti generi diversi: la precisione documentaria la avvicina ad un libro-inchiesta, carico di informazioni, dati, eventi storici di oggi e ieri; le interviste danno libera espressione alla esasperazione, alla denuncia, talvolta alla rassegnazione dei protagonisti, privati, oltre che dei loro affetti e beni, soprattutto della possibilità di gestire le proprie esistenze; le riflessioni dell’autore, che prende nettamente posizione, contribuiscono a creare una cornice che contestualizza ed elabora i resoconti. Farah, infatti, va oltre la mera registrazione di esperienze e cerca di fare il punto sulla complicata situazione in Somalia e sulle cause che l’hanno prodotta, smantellando stereotipi dannosi e fuorvianti, in primis quello che attribuisce alla teoria clanica o tribale lo scatenarsi dei conflitti. Non si ferma, poi, a questo: non risparmia infatti denunce a potenti organi quali l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, alla ostacolante burocrazia europea in materia di asilo, al razzismo che permea tutte le società che ha osservato e che si accanisce in particolare con le persone di colore. Inoltre, l’autore si dimostra attento osservatore della condizione femminile, a cui dà voce e di cui sottolinea la tenacia anche in condizioni umanamente inaccettabili. I punti di vista che si susseguono sono variegati e differenti, spesso condizionati dal genere, che rappresenta, non a caso, una delle lenti con cui si guarda alla diaspora dei somali.All’altezza dell’epilogo, la pars destruens acquista una carica positiva e propositiva: creatività e lirismo elaborano infatti il rancore, la rabbia ed il senso di ingiustizia, lasciando spazio al sentimento di “indistruttibile fiducia nell’Africa” (p. 253), linfa vitale che permette all’autore di ritrovare la forza per elaborare la propria ed altrui sofferenza, creando letteratura.

Autore della recensione: 
Silvia Camilotti