Tu sei qui

Sapessi, Sebastiano...

Editore: 
Rayuela edizioni
Luogo di edizione: 
Milano
Anno: 
2010


Recensione: 

Questo romanzo dello scrittore originario dell'Uruguay, trapiantato in Lombardia da metà degli anni Ottanta, è un testo che si legge, anzi si ascolta, tutto d'un fiato. Dico "si ascolta" perché l'impostazione, indicata sin dal titolo, vede una serie di vicende evocate in prima persona da un io narrante al proprio figlio: la proiezione nella dimensione dell'oralità, dell'ascolto, avvolge da subito il lettore. Non vogliamo ridurre entro il genere dell'autobiografia un testo che potrebbe essere raccontato da molti padri a altrettanti figli e che in tal senso assume una valenza che va molto oltre l'individuale, sebbene racconti le storie di tanti piccoli uomini e donne, grandi nella loro semplice quotidianità. I numerosi ritratti che l'autore delinea nelle sue storie, che insieme vanno a comporre il puzzle di questo romanzo, (composito anche al primo sguardo, il cui indice alterna titoli di capitoli, in caratteri tutti diversi, a semplici numeri) sono carichi di umanità, di empatia, nonché di schietta ironia. Ritorna, come nel romanzo precedente, L'argonauta, la commistione tra prosa e poesia, che fa capolino talvolta tra i capitoli, e il mescolamento delle lingue dell'autore, italiano e spagnolo. Le ambientazioni evocano perlopiù l'America Latina lasciata alle spalle dalla voce narrante, con le persone, gli affetti e i suoni che a quella terra appartengono. È un romanzo che rende onore a quelle terre, descrivendone anche alcune storie dimenticate, come quelle dei popoli indigeni cancellati con l'arrivo degli europei o portati in occidente alla stregua di fenomeni da circo. È un romanzo che descrive il bisogno umano di radici, o piuttosto dell'idea di esse, pur nella consapevolezza che è nella natura dell'uomo spostarsi: "L'uomo è come un albero, mi diceva. Si pianta, crea radici, diventa paesaggio. Se cresce bene è come una montagna che respira. È aria, fuoco, ombra per l'estate e rifugio per l'inverno. Diventa casa, culla, tavolo intorno al quale crescono e si riproducono le generazioni. Nasce e rinasce all'infinito, a patto di non rimetterci le radici. Le radici sono la vita dell'albero. Se perdi quelle, sei niente…(23) E a proposito della spinta a partire, nelle pagine successive, in uno degli andirivieni tra passato e presente che si avvicendano nel testo, leggiamo un amaro commento circa le vicende dei migranti morti in mare: "Dei settantatre imbarcati sono arrivati in cinque. Altri sono rimasti per strada, in fondo a quel mare che un giorno diventerà il monumento più grande mai esistito alla memoria dei migranti, cioè della stessa umanità. Perché non c'è uomo che non si sia buttato in mare, o addentrato in territori sconosciuti, in un qualche momento della storia" (135). Ecco l'uomo, diviso tra desiderio di radici e bisogno di partire. L'immagine che apre il libro è fortemente evocativa, anche se buffa (pare un paradosso, ma non lo è): descrive una moltitudine di pinguini che in un giorno d'estate approdano sulle coste dell'Uruguay, creando sconquasso e entusiasmo. Anche l'io narrante, allora un bambino, si affeziona a uno di questi animali mai visti, sebbene presto comprende che il mare sia l'unica strada per il piccolo animale: "Non so, nessuno può sapere cosa sia stato di lui. A me piace pensare che ha continuato a navigare a lungo. Che è riuscito a scovare, da qualche parte dell'universo, quello che era venuto a cercare sulle coste del mio piccolo paese, o che - strada facendo - il mare, o la vita (che dovrebbe essere la stessa cosa) abbiano offerto a lui delle strade alternative degne di essere percorse, magari diverse da quelle a cui credeva di essere destinato" (17) "Strade alternative degne di essere percorse" sono quelle a cui ogni uomo dovrebbe avere diritto, e che Fernández, con questo romanzo, racconta e invoca.

Autore della recensione: 
Silvia Camilotti