Il successo nelle sale del film di Matteo Garrone, Io capitano, accende un lumino di speranza in questi tempi in cui gli sbarchi sono raccontati con allarmismi roboanti che impediscono un approccio razionale alla questione migratoria e che rendono quasi impossibile anche solo di immaginare le storie individuali che si celano dietro le cifre. Il pregio del film è quello di creare empatia, di permettere a chi guarda l’immedesimazione nei sogni e negli incubi che i protagonisti vivono nel loro viaggio verso l’Europa, spinti non da guerre, fame o eventi climatici estremi, bensì da un sacrosanto e umanissimo desiderio di realizzazione.
Osserviamo l’alternarsi di registri che vanno dal realismo spietato alla favola, con elementi di poetico surrealismo che alleggeriscono il dramma. Non sempre il discrimine tuttavia appare netto, poiché vi sono scene chiaramente realistiche che perdono in credibilità; un’ulteriore nota critica potrebbe ravvisarsi nella rappresentazione della comunità senegalese da cui i due protagonisti provengono, tratteggiata forse in maniera che rasenta il folclore. L’umanità, l’etica e l’onestà del protagonista colpiscono, e si manifestano in un crescendo di maturità che vede il suo climax nella scena finale.
Al netto delle critiche, resta un film che andrebbe visto e rivisto, proprio per la capacità che ha di produrre immedesimazione. Risulta amaro constatare che di favola si tratta, perché la storia raccontata, a parte forse l’inferno libico e i sogni di realizzazione umanissimi dei due personaggi principali, non trova molti altri riscontri nella realtà. Credo che non pochi abbiamo guardato con tenerezza e compassione alla gioia - legittima e comprensibile - di chi finalmente vede l’approdo, ma che ignora che le sofferenze non sono finite e che l’Europa non è quella che si aspettava.
Bosnia, luglio 1995. Aida è un’interprete che lavora alle Nazioni Unite nella cittadina di Srebrenica. Quando l’esercito serbo occupa la città, la sua famiglia è tra le migliaia di cittadini che cercano rifugio nell’accampamento delle Nazioni Unite. Come persona informata sulle trattative, Aida ha accesso a informazioni cruciali per le quali è richiesto il suo ruolo di interprete. Cosa si profila all’orizzonte per la sua famiglia e la sua gente? La salvezza o la morte? Quali passi dovrà intraprendere?
Il film è il primo lungometraggio di un regista figlio di immigrati srilankesi che mette insieme elementi e valori della propria cultura di origine con quelli della cultura italiana. Il film è anche il primo esempio di uno sguardo cinematografico di un autore di “seconda generazione”. “Per un figlio” è girato a Verona, dove Suranga D. Katugampala è cresciuto e vive. Lì Sunita, una donna srilankese di mezz’età, divide le sue giornate tra il lavoro di badante e un figlio adolescente. Fra di loro regna un silenzio pieno di tensioni. È una relazione segnata da molti conflitti. Essendo cresciuto in Italia, il figlio fa esperienza di un’ibridazione culturale difficile da capire per la madre, impegnata a lottare per vivere in un Paese al quale non vuole appartenere. A proposito del film dice Suranga D. Katugampala: “L’unica cosa certa era l’urgenza di raccontare, di dire “noi ci siamo”, “le nostre storie sono anche le vostre storie, le storie di un mondo comune. E’ nato un film minimalista – spiega – Il sogno di un cinema semplice si stava realizzando mentre noi cavalcavamo l’onda felice di raccontare la nostra storia. Abbiamo unito le forze, affrontato mille problemi, srilankesi ed italiani, perché era la storia di ognuno di noi”.
“Per un figlio” è stato scritto da Suranga D. Katugampala e da Aravinda Wanninayaka, è stato prodotto e distribuito da Gina Films di Antonio Augugliaro – regista di “Io Sto con la Sposa”. In collaborazione con Gianluca Arcopinto, Cineteca di Bologna, Kalà Studio, Archivio Memorie Migranti, Amici di Giana. Il film ha vinto nel 2016 il premio della giuria al Pesaro Film Festival. Nel 2017 è stato selezionato al Dhaka International Film Festival e al Tallinn Black Night Film Festival. Nel cast anche Louis Shirantha Fernando e Isabella Dilavello.
Chinué è una ragazza di Napoli, una giovane “G2” che si ritrova alle prese con una gravidanza inaspettata. I suoi genitori non vedono di buon occhio la sua simpatia per un ragazzo di Napoli, e questo complica le cose. Un racconto magico che ha come sfondo il dramma di “Romeo e Giulietta”, una messa in scena alla quale la stessa Chinué partecipa e che vede contrapposti come Montecchi e Capuleti gli italiani ed i migranti. Un cortometraggio che fa riflettere su molte questioni, dai G2, al rapporto genitori-figli, ai problemi legati all'adolescenza, a prescindere dal colore della pelle. Premio Migrarti Cinema 2017.
Un film che colpisce per la capacità del regista di prevedere e portare in scena, due anni fa, (quando ha iniziato a lavorarci) una realtà che oggi è sotto gli occhi di tutti: Corrado è un alto funzionario del Ministero degli Interni italiano specializzato in missioni internazionali contro l’immigrazione irregolare. Il Governo italiano lo sceglie per affrontare una delle spine nel fianco delle frontiere europee: i viaggi illegali dalla Libia verso l’Italia. La missione di Corrado è molto complessa, la Libia post- Gheddafi è attraversata da profonde tensioni interne e mettere insieme la realtà libica con gli interessi italiani ed europei sembra impossibile. Corrado, insieme a colleghi italiani e francesi, si muove tra stanze del potere, porti e centri di detenzione per migranti. La sua tensione è alta, ma lo diventa ancor di più quando infrange una delle principali regole di autodifesa di chi lavora al contrasto dell’immigrazione, mai conoscere nessun migrante, considerarli solo numeri. Corrado, invece, incontra Swada, una donna somala che sta cercando di scappare dalla detenzione libica e di attraversare il mare per raggiungere il marito in Europa. Come tenere insieme la legge di Stato e l’istinto umano di aiutare qualcuno in difficoltà? Corrado prova a cercare una risposta nella sua vita privata, ma la sua crisi diventa sempre più intensa e si insinua pericolosa nell’ordine delle cose. Non sveliamo il finale, tuttavia ci sentiamo di commentare che Segre, con questo suo film, racconta davvero l'ordine delle cose, sarà lo spettatore a decidere, in cuor suo, se questo ordine gli/le sta bene oppure no. Un film che, senza puntare il dito, fa riflettere profondamente sullo statu quo.
L’immigrato clandestino messicano Carlos (Demián Bichir) si guadagna da vivere grazie al suo lavoro di giardiniere, con il quale garantisce anche la minima sussistenza all’irrequieto figlio adolescente Luis (José Julián). Il rapporto tra i due non è certo dei migliori, ma avranno la possibilità di riavvicinarsi quando dovranno ricercare per le vie della città il furgoncino del padre - appena acquistato grazie a un prestito concesso dalla sorella e rubato con tutti gli strumenti di lavoro - su cui erano riposte tutte le speranze di cambiar vita.
Claude e Marie Verneuil, appartenenti alla grande borghesia di provincia, sono una coppia di genitori molto tradizionali, che si dichiarano di mentalità aperta. Le loro amate figlie si sono innamorate di uomini di origini e fedi differenti dalle loro e i due sono costretti a far buon viso a cattiva sorte. Senza voler sembrare razzisti, Claude e Marie hanno sempre desiderato che le loro ragazze si sposassero in chiesa seguendo i loro valori e ben presto la figlia minore sembra accontentare i loro desideri, incontrando un buon ragazzo cattolico, che però è di origine ivoriana.
Kamla si è da poco trasferita con i genitori in un palazzo degradato alla periferia di Trieste abitato da altre famiglie di immigrati e da un vecchio professore che odia tutti. Quando arriva la lettera di sfratto, determinati a non lasciare le proprie case, gli uomini reagiscono con rabbia alle minacce del padrone fuorilegge, mentre le donne si uniscono per salvare il destino delle proprie famiglie, tra risate, pianti e incomprensioni. Intanto la piccola Kamla e il professor Leone diventano amici contro la volontà del padre, mentre la madre Shanti presto rivela il dono di saper ballare come una star di Bollywood. Con l’aiuto di un’amica italiana, nasce il progetto di una scuola di danza e nel quartiere già si parla delle Babylon Sisters. Tratto dal romanzo di Laila Wadia, Amiche per la pelle
Il sale della terra è un documentario che traccia l'itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano. Co-diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio dell'artista, Il sale della terra è un'opera sul mondo e sui rischi che sta correndo. Viaggiatore irriducibile, Sebastião Salgado ha esplorato ventisei paesi e concentrato il mondo in immagini bianche e nere. In questo documentario si racconta a partire dai suoi numerosi reportages sui milioni di ricercatori d'oro brasiliani, i genocidi africani, i pozzi di petrolio incendiati in Medio Oriente.
Giraffada, liberamente ispirato ad eventi realmente accaduti nel 2002 a Qalqilya, racconta una situazione di cattività, quella degli animali dello zoo, come specchio della situazione in cui vivono i palestinesi dei territori occupati. Yacine è il veterinario di uno zoo di Qalqilya, cittadina palestinese a ridosso della West Bank. Vive da solo con il figlio Ziad, un ragazzino che adora gli animali, soprattutto le due giraffe dello zoo, Rita e Brownie. Quando Brownie cade vittima di un bombardamento Rita smette di nutrirsi e Yacine e Ziad devono inventarsi un modo di procurarle un nuovo compagno. Ma entrare e uscire dalla zona controllata dai soldati israeliani è assai difficile, figuriamoci insieme a una giraffa. Giraffada utilizza l'animale "nato da un cammello e da un leopardo" come testimone del desiderio del popolo palestinese di sollevare lo sguardo oltre i muri e le ottusità degli uomini.
Rani Massalha è un regista nato in Francia da padre palestinese e madre egiziana e riesce a ricreare efficacemente il clima di oppressione nei territori occupati, raccontando il "potere magico" di un ragazzino che non si rassegna allo stato delle cose ma continua a sperare (e pregare, al contrario del padre che "non va più alla moschea") in un miracolo.