Ordinanza di espulsione di cittadini boemi di lingua tedesca, Boemia, 1945.
Inviatoci da Wolftraud Schreiber De Concini, autrice del
volume Boemia andata e ritorno
Un mese prima, subito dopo la fine della guerra, avevamo già dovuto lasciare la scuola dove abitavamo. Le scuole tedesche erano state chiuse. Tempo 24 ore per andare a vivere in una casa vicina. Perché? Non lo so. E la maggior parte delle nostre cose era già rimasta indietro allora. Pentole, padelle, cucchiai, coltelli, forchette e la mia tazza preferita con l’immagine di Biancaneve oltre le sette montagne nella casetta dei sette nani, la fine porcellana con decoro floreale e bordo d’oro nella vetrina del soggiorno e le stoviglie in ceramica per tutti i giorni nella credenza in cucina, le tovaglie a pizzo lavorato ad uncinetto per il tavolo domenicale nel soggiorno, piumini alti, pesanti e federe con inserti a filet che odiavo perché grattavano il viso, i miei abiti estivi ricamati a mano e i miei pullover invernali lavorati a maglia con disegni norvegesi in bianco e rosso, le scarpe invernali e la slitta per le discese dalla collina di Brenden, la macchina da cucire nel soggiorno e la legna in cantina, la marmellata di rosa canina fatta con i frutti pelosi e pruriginosi che avevamo raccolto nell’autunno precedente nel bosco verso Slatin, il bidone del latte nella dispensa fuori sul corridoio. E i libri di fiabe di Cappuccetto Rosso e di Rübezahl, lo spirito delle montagne e signore dei Monti dei Giganti, della nostra patria.
E rimasero indietro i morti.
L’espulsione. Entro un’ora. L’otto giugno. Due giorni dopo il mio quinto compleanno. Mia madre è confusa. Via in così poco tempo. Per dove? Un giovane soldato ceco – mi piacerebbe tanto sapere come si chiamava – mi mette i calzini, calzini bianchi traforati, e mi chiude il cinturino delle scarpe. E si asciuga gli occhi. La nostra vita pesa ora settanta, ottanta chili. Gli averi di quattro persone in tre zaini. Il mio è piccolo e non conta. Vi sta poco. Neppure la mia bambola Rosamunde che stringo forte tra le braccia.
Quando tutti sono radunati partiamo. In modo pacifico, mi sembra, silenzioso. Non ricordo parole dure e ordini secchi. Non ricordo neppure donne che piangono. Josef Tvrzký, sottotenente della fanteria, è il comandante del primo plotone della 1/13 compagnia “Bydžovské” che ci “accompagna”. I soldati mi rifocillano con panini. Portano il mio zaino. Mi prendono per mano quando comincio ad inciampare per la stanchezza. Ma la mia bambola Rosamunde, no, quella non l’abbandono. Siamo un piccolo gruppo. In tutto 18 persone, sette famiglie. Schreiber, Bönsch, Umlauf, Püschel (la mia amata “nonna” Püschel, che non era la mia nonna?), Winkler, Künzel e Stierand: gli Stierand, marito e moglie con la loro figliastra ventottenne che – com’è annotato con acribia sul foglio d’espatrio – era “figlia di un ceco”. Io sono la più giovane. L’unica bambina. Un’avventura per questa bambina. Nuova gente, una nuova lingua, nuovi orizzonti, nuovi mondi.
E in fondo fummo fortunati. Nessun morto in famiglia durante o dopo l’espulsione, nessuna vittima dell’esodo nel nostro villaggio. In molte altre località la situazione fu ben diversa. E Brünn/Brno, Aussig/Usti nad Labem, Postelberg/Postoloprty e Saaz/Žatec sono solo i luoghi più conosciuti in cui, nelle settimane dopo la fine della guerra, avvennero uccisioni arbitrarie e massacri.
Alcune settimane prima, i miei genitori, mia sorella ed io avevamo fatto una gita alle rocce di Adersbach. Con il treno della linea locale Wekelsdorf–Trautenau, partendo da Radowenz. Fu un viaggio emozionante, il primo viaggio in treno che ricordo. Ancora più emozionanti le rupi ed i picchi di Adersbach/Adršpach, una città bizzarra e labirintica di rocce grigio chiare. Ero però contenta quando fummo di nuovo alla stazione. I mostri in pietra – nonostante avessero nomi fantasiosi come “Indiano“ e “Coppia di amanti“, “Re” e “Regina”, “Borgomastro”, “Pan di zucchero” e “Tartaruga” – mi avevano più spaventata che rallegrata.
Penso che quel giorno avevamo portato con noi dei panini, per il viaggio.
Ma ora, l’8 giugno 1945, cosa mangiavamo? Avevamo fame? Sete? Non lo so. Ma non ricordo né fame né sete. Ricordo solo la notte, all’aperto. E dove eravamo? Ancora in Boemia oppure già in Slesia? Ancora nella Repubblica cecoslovacca, appena ricostruita nei confini dell’anteguerra, oppure già in Polonia? Penso che eravamo ancora in Boemia, vicini al confine. Gruppi di persone, masse stanche di persone. Come morti su un immenso campo di battaglia. Nonostante la tanta gente, una notte silenziosa, sotto un cielo scurissimo. Era luna nuova. I poeti amano descrivere delle notti così, si inebriano di belle parole, le descrivono con pathos e retorica. Ma mai dall’ottica di una famiglia senza patria durante un esodo da profughi, mai con i sentimenti di una bambina di cinque anni con trecce castane, un vestitino a fiori e una grande bambola in braccio. E che conta le stelle finché non si addormenta. Tra la madre e la sorella. Sul nudo terreno? Avevamo coperte? Sicuramente non cuscini. Ma la bambina non ha freddo. E sogna nuove avventure che l’attendono al mattino seguente.
Una strana notte. Come sospesa, fuori del tempo. Qui finiscono i miei ricordi boemi. Seguono alcuni mesi in una fattoria della Slesia, presso contadini di lingua tedesca. Poi la fuga di notte (quella sì che era una fuga) per arrivare in territorio tedesco. Perché? Come? Non lo so. E da qualche parte, durante il viaggio, mia sorella entra furtivamente in una casa vuota, in cerca di qualche cosa da mangiare, da vestire. Là, per la prima volta, sento paura e minaccia.