La notte in cui mia madre bambina, un piumino e un tappeto lasciarono la Moldavia per il Kurgan
Una testimonianza di Veronica Ciubotaru
Ascoltata e trascritta da Maria Serena Tait
Io vorrei partire portando la testimonianza di mia madre, Bodiu Leucadia in Ciubotaru, ma rievocando anche i fatti storici, perché purtroppo la nostra storia del periodo delle deportazioni comincia con il patto Ribbentrop – Molotov, un accordo segreto tra la Germania e l’Unione Sovietica, firmato il 23 agosto 1939, dove si dividevano le sfere di influenza tra i paesi dell’Est e dell’Ovest. In base a questo accordo la Russia, che era interessata al territorio della Bessarabia, la occupò nel 1940. Vorrei specificare che il territorio della Bessarabia , è il territorio tra i fiumi Prut e Nistru, che attualmente fa parte della Repubblica Moldava.
Nel 1940 mia madre andò a scuola alle elementari con l’alfabeto latino, nella scuola rumena, e nel 1941 quando iniziò la Seconda Guerra Mondiale e il paese fu occupato dall’esercito nazista c’erano i russi sul territorio e dovette rifare la prima elementare con l’alfabeto cirillico, parlando la stessa lingua, però con un altro alfabeto. Da lì è partito un altro nostro grande problema che è l’identità della nazione e della lingua che parliamo, se siamo rumeni o moldavi.
Parlando del periodo della sua infanzia, mia mamma, che ha avuto la sfortuna di nascere proprio nel periodo dello stalinismo, mi ha raccontato delle cose che commuovono. Nel 1949, dopo la Seconda Guerra Mondiale, tutte le riforme fatte nel territorio russo dovevano essere applicate anche nella nuova Repubblica Sovietica Socialista Moldava, creata il 2 agosto 1944, e una delle prime riforme è stata la fondazione delle cooperative che si chiamavano Kolkhoz. Per poterle creare dovevano essere espropriate le terre a tutti i precedenti proprietari con tutte le attrezzature, la terra e gli animali, per rendere tutto collettivo e procedere con lo sviluppo secondo il modello socialista. Durante gli espropri per evitare opposizioni, resistenze e disaccordo è iniziato il periodo del terrore stalinista con le deportazioni. Le prime deportazioni sono state fatte nel ’45, subito dopo la guerra. Hanno individuato quelle che secondo loro erano le persone più pericolose per il potere sovietico e le hanno imprigionate o ammazzate. Il periodo tra il ’46 e il ’47 è stato un periodo di fame in cui sono morte circa 20.000 persone, ma la fame non è stata provocata solo dalla carestia per motivi climatici, ma anche dal fatto che le autorità moldave non hanno avvisato Mosca, o almeno hanno finto che Mosca non lo sapesse, e hanno continuato a mandare in Unione sovietica la quota dovuta dalla Repubblica moldava, attingendo alle risorse riservate alla popolazione per le situazioni straordinarie, e così nel mese di novembre la popolazione ha cominciato a morire in massa e questo è durato a lungo. In questo periodo ci sono stati anche atti di cannibalismo, un aspetto particolarmente doloroso per il nostro territorio.
Passata la fame, nel 1949 doveva essere ultimato il periodo di collettivizzazione e a questo punto venne deportato in Siberia un numero enorme di famiglie, 22.000 nuclei familiari, i proprietari o i nazionalisti che non volevano accettare il regime sovietico e che non erano riusciti a scappare in Romania.
Una di queste famiglie era la famiglia di mia mamma. Nel periodo dei rumeni il nonno era stato il sindaco del paese e con l’avvento del potere sovietico l’avevano messo di nuovo al comando, ma il nonno non voleva accettare questo suo incarico perché vedeva che dovevano fare le liste, denunciare le persone e lui diceva che non era un traditore e non poteva lavorare contro la sua gente che conosceva bene e di cui si fidava. Ma avrebbe dovuto preparare ugualmente una lista di dissidenti anche se non c’erano. Al suo rifiuto venne arrestato e mandato in galera nel ’45 mentre gli altri componenti della famiglia furono deportati nella notte del 6 luglio 1949. Arrivò una macchina con dei soldati armati di fucili e la nonna e i 6 figli furono caricati su questo furgone. Una persona del paese riuscì a lanciare loro un tappeto che era su un muro della casa e fu l’unica cosa che portarono con sé in Siberia, oltre al piumino con cui la nonna aveva coperto i bambini nella notte per non farli spaventare nel percorso verso la macchina. Vennero portati alla stazione di Soldanesti a 6 km di distanza, lì rimasero 3 giorni e poi partirono verso est. Viaggiarono per 12 giorni senza interruzione e c’erano due convogli che procedevano e si sorpassavano a turno nelle stazioni. Dopo quasi due settimane arrivarono in una regione nel nord del Kazakistan,nel Kurgan, e lì il treno si fermò per mezza giornata e i bambini, che si trovavano nel carro bestiame, scavarono nella parete un buco con un coltellino per vedere cosa c’era fuori. Ho dimenticato di dire la cosa più tremenda, ovvero che ricevevano dell’acqua una volta al giorno e non gli hanno mai dato da mangiare per tutta la durata del viaggio e anche per fare i loro bisogni i bambini avevano scavato un buco in un angolo del vagone sempre con lo stesso coltello. Quando sono riusciti a guardare dal buco scavato nella parete del vagone hanno visto una colonna enorme di automezzi, forse più di cento, che stavano aspettando il loro arrivo. Oltre alle macchine c’erano dei carri con i cavalli.
Sono stati divisi tra i vari automezzi, anche 4-5 famiglie con 6, 8, 10 figli su ciascuno e i sindaci schierati sceglievano le macchine che volevano far arrivare nel proprio paese. Loro vennero mandati in un paese dove c’erano allevamenti di animali e si lavorava la terra e furono fatti scendere vicino a una baracca lunga centinaia di metri e sistemati in due famiglie ai due lati di una stanza di 10 metri per 20, la nonna con i suoi sei figli maschi e femmine e l’altra famiglia di 10 persone. C’erano solo brandine di legno, un focolare in comune e le sanguisughe a tormentarli tutte le notti. Così sono rimasti per un anno e poi l’altra famiglia si è trasferita nelle nuove baracche. All’inizio avevano diritto alla razione di cibo solo quelli che andavano a lavorare e quindi tutti e sei i bambini lavoravano e poi dividevano tutto anche con la nonna che restava a casa a lavare, cucire, pulire e cucinare. All’inizio mia mamma ha lavorato alla fienagione, poi è diventata assistente del trattorista meccanico capo e quindi è stata promossa e poteva fare tutti i lavori dall’aratura alla trebbiatura.
Il primo impatto con la popolazione è stato molto difficile perché al loro arrivo tutti i russi si erano barricati in casa con i loro bambini, chiudendo porte e finestre in quanto, come si è saputo poi, erano stati informati già dal mese di maggio che sarebbero arrivati dei cannibali che mangiavano le persone e bevevano il sangue. Può darsi che questa diceria sia nata per gli episodi della carestia, ma forse è stata detta apposta per tenere separate le diverse popolazioni anche se poi non è andata così perché sono diventati amici e hanno finito con lo sposarsi tra le diverse comunità cominciando una convivenza molto normale.
Nel 1953 morì Stalin e iniziò la destalinizzazione e la fine del terrore finché nel 20° Congresso del Partito Comunista Sovietico del 1956 Khruščёv proclamò solennemente la fine del “culto della personalità”. Vennero liberate tutte le persone che erano state condannate da Stalin, compreso il nonno, che sarebbe potuto ritornare in Moldavia ma decise di raggiungere la sua famiglia, che non vedeva dal 1945, nel Kurgan. Mia mamma si commuove ancora ripensando all’estate del 1953, quando sul lungo viale fiancheggiato dai capannoni dove vivevano vide arrivare questo signore con una lunga barba che proprio a lei chiese dove abitava la famiglia Bodiu. Lei glielo spiegò ma poi volle sapere perché li cercava. Fu a quel punto che suo padre la riconobbe dalla voce e la chiamò per nome dicendole di essere suo papà.
In un primo tempo la famiglia era convinta di rimanere in Siberia e questo era anche l’obiettivo del vecchio sistema politico che desiderava mescolare le varie popolazioni tra di loro per far perdere l’identità, la cultura e tutto quello che li distingueva. Il nonno però dopo un paio d’anni cominciò a sentire la mancanza di tutto questo e nel 1957 decisero di tornare a casa, in Moldavia. Malgrado tutte le promesse sulle facilitazioni per il rientro non ottennero la casa fino al 1960, quando l’ultimo figlio, che era andato a fare il servizio militare a Mosca vicino al Cremlino come guardia del Mausoleo di Lenin, parlando con il suo comandante, gli raccontò la storia della famiglia e il loro disagio per la mancanza della casa. Il comandante prese a cuore il problema e la sera stessa arrivò un telegramma, il nonno venne convocato in Comune e fu loro restituita la casa di famiglia, anche se quasi distrutta e senza più i muri di recinzione per gli animali.
Tutti ripresero a lavorare, e la mamma fu assunta in ferrovia, perché nel periodo socialista si ignorava cosa fosse la disoccupazione, tutti avevano un posto di lavoro ed erano preparati per fare quel lavoro e c’era una certa specializzazione: un fratello era falegname, un altro per tutta la vita ha fatto l’autista, uno ha allevato mucche e uno ha lavorato sempre come pastore di pecore, continuando così la tradizione di famiglia perché quando erano stati deportati possedevano 2 mucche, 2 cavalli e 70 pecore. Mia mamma quando venne aperta una fabbrica di zucchero lasciò la ferrovia e si trasferì a lavorare lì, dove le veniva garantito tutto e così, un po’ alla volta, la vita tornò alla normalità. Dopo il matrimonio con mio padre nel 1964 si trasferì nel villaggio dove tuttora vive.