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Ridare voce a chi l’ha persa. Il teatro sociale raccontato ad Urbania.

di Ilaria Andaloro

C’è tutto un mondo, più o meno sotterraneo, più o meno conosciuto, di artisti che in ogni dove si stanno adoperando per portare l’arte teatrale entro luoghi e contesti complicati, delicati, lontani dai riflettori, lontani dal teatro più ufficiale e blasonato, lontani dagli applausi. Una realtà in continuo fermento, d’azione e d’animo, formata da professionisti con una loro precisa formazione, che sono innanzitutto donne e uomini coraggiosi, che hanno scelto di mettere lo strumento teatrale al servizio delle persone meno fortunate e più in difficoltà. I loro nomi compaiono di rado in cartellone, nelle riviste specializzate o nei festival più frequentati.

 

Operano nelle zone di conflitto e di frontiera, nelle carceri, nelle corsie d’ospedale, nei campi profughi e rifugiati, nelle comunità di recupero o nelle scuole. Lottano, attraverso il teatro, nella consapevolezza che esso possa realmente essere mezzo di resistenza e di trasformazione. Anche e soprattutto in tempi come quelli attuali, che sembrerebbero remare contro ogni tentativo, all’apparenza folle, di dedicare energie, tempo e vitalità all’arte ed alla cultura, in generale, ma ancora di più al teatro di impegno sociale. Un teatro che riesce a riassegnare corpo e sostanza agli invisibili, a ridare voce a chi l’ha persa, soffocata da una società che zittisce, violenta, annienta ogni indizio di umana fragilità.

Nell’incantevole cittadina di Urbania (PU) è stata data la preziosa possibilità di conoscere meglio le loro storie, il loro coraggio, la loro ostinata passione, nell’ambito della XV edizione del Convegno Internazionale di Studi della Rivista europea “Catarsi - Teatri delle diversità” ( fondata nel 1996 da Emilio Pozzi e Vito Minoia, presso l’Università di Urbino ), svoltosi il 13 e 14 dicembre 2014, all’interno del più ampio progetto “Ombre, tracce, evanescenze” ( XVIII edizione ) a cura del TEATRO AENIGMA – Centro Internazionale di Produzione e Ricerca, presso la medesima Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.  […] 

La marionetta come mezzo di supporto psicosociale nella crisi della Siria e in Libano Karim Dakroub, presidente di Khayal Association for Arts & Education (Beirut), ci racconta le sue esperienze in zone di conflitto, in situazioni, come le definisce egli stesso, di urgenza, dove l’arte della marionetta può assolvere la finalità di valorizzare il ruolo sociale dell’individuo, che lo ha perso proprio a causa della grave situazione contingente. Ecco allora che la marionetta, o il burattino (puppet), diviene mediatore tra l’operatore psico-sociale ed il destinatario di tale processo, che ci viene descritto da Karim nelle sue fasi consequenziali: il lavoro sul corpo al fine di creare un intimo spazio confidenziale e protetto e di rompere le barriere del comportamento sociale; la stimolazione dei sensi; il gioco di ruolo che valorizzi il carattere terapeutico di tale processo, nel quale l’Altro contiene sempre una parte di noi stessi, anche quando l’Altro è il Nemico, del quale andrà scoperto l’aspetto umano e non solo quello brutale. Tra la marionetta ed il fruitore di tale processo andrà così a crearsi un’inter-scambiabilità, di ruolo e di emozioni, un’identità (come mi guarda la marionetta? Cosa vuole dirmi?) che potrà aiutare molto chi ha subito perdite, lutti e violenze in situazioni di conflitto ad elaborare il tutto. […]

Il teatro come strumento 

per la trasformazione di conflitti in modo non violento

La prima a raccontarci la propria incredibile esperienza, umana ed artistica, è Annet Henneman (Hidden Theatre/Teatro di Nascosto) protagonista di esperienze teatrali con Rifugiati in Europa e Medioriente. Annet è una donna forte e coraggiosa, lo si comprende non appena inizia a parlare, una donna che con le sue azioni teatrali è riuscita a smuovere politici e ministri un po’ ovunque, oltre che un’artista di solida esperienza teatrale, che può vantare la formazione al Workcenter di Grotowski, partita dall’Olanda e poi fermatasi in Toscana, con il desiderio di unire le sue due grandi passioni, il giornalismo e l’arte drammatica. Trova nel teatro-reportage un proficuo punto di incontro, che la porterà, negli anni, ad inoltrarsi nelle zone più calde, dal Libano all’India, dal Kurdistan all’Iran fino all’Iraq, ad ascoltare frammenti di vita, talvolta molto dolorosi, di cui la storia “ufficiale”, la cronaca ed i mass-media raramente ci mettono al corrente, storie di ordinaria sofferenza, di quotidiana violenza, storie che richiedono veramente un grande cuore ed un grandissimo coraggio per decidere di renderle visibili, anche se, come ci ricorda la stessa Annet, ci sono tante persone che lavorano per un mondo diverso. L’attrice e regista sottolinea il ruolo e l’importanza del racconto per le popolazioni che vivono in isolamento ma anche la versatilità dei suoi attori, provenienti da tutto il mondo, i quali devono sapersi immedesimare completamente nelle storie raccontate e in coloro che le hanno vissute. Sono dunque narr-attori con una forte predisposizione al cambiamento, anche radicale, delle proprie consuetudini, dei propri comportamenti sociali ed antropologici, per calarsi in quelli delle popolazioni che vivono situazioni politiche estremamente delicate. Annet ricorda anche la necessità, per chi svolge questo mestiere e mi viene da dire per chiunque abbia deciso di fare teatro sociale, di mettere in discussione, sempre, le proprie abitudini sociali e ricorda la semplice e preziosa domanda posta, a suo tempo, da Judith Malina (che dovremmo davvero ripeterci ogni giorno …): Perché fai teatro? […]

Il Convegno sta per chiudersi ma ci attende ancora un evento prezioso, l’emozionante e coinvolgente performance di Teatro Reportage realizzata dal gruppo internazionale Hidden Theatre/Teatro di nascosto, per la regia di Annet Henneman, intitolata La lotteria del sogno. La Sala Volponi, che ospitava il Convegno, viene in poco tempo riallestita e trasformata in spazio scenico, con pochi ma efficaci accorgimenti allestitivi. Gli interpreti di questa Compagnia teatrale provengono da tutto il mondo e ci raccontano, in diverse lingue, frammenti di vita quotidiana, le vere storie dietro i sogni: le guerre in Iraq, la violenza, le speranze, la prigionia delle donne palestinesi in Israele, i rifugiati nei campi del Libano, il desiderio di una vita normale dove poter cantare e danzare liberamente, senza più lacrime, senza più dolore. E proprio in una danza finale e collettiva veniamo coinvolti tutti, una danza che si rivela liberatoria, catartica, benefica. Lascia un segno profondo questo spettacolo, perché hai sentito palpitare dentro vita vera, emozioni vere e perché veri erano gli sguardi, i ricordi ed i movimenti di questi bravi narr-attori, che hanno saputo rompere la quarta parete con molta naturalezza, portandoci, da subito, dentro i loro stessi sguardi, le loro stesse emozioni, i loro stessi movimenti, ovvero dentro l’esistenza delle persone protagoniste delle storie raccontate. I nostri occhi sono lucidi e per questo motivo devono essere molto grati a questo momento e ad Annet. 

[…] Lasciamo i dolci colli marchigiani e partiamo per il nord; ci sentiamo più vivi, dopo questi incontri e forse anche più consapevoli di tornare nei rispettivi campi d’azione con più coraggio, con più energia, supportati da quella stessa ricevuta ascoltando i racconti di esperienze artistiche ed umane che hanno lasciato un segno, che fanno sentire meno soli, che spronano, nonostante le innumerevoli difficoltà, a non abbandonare il sentiero scelto. E, in fondo, ci si sente anche fortunati a poterlo percorrere perché l’incontro con certa umanità, dolente ma splendente, ripaga di ogni fatica.