di Jacopo Rui
Hanno sgomberato Idomeni. L’abbiamo visto tutti. Ciò che non abbiamo visto è che questo è il minore e solo l’ultimo dei crimini commessi dall’Unione Europea. Per chi da Idomeni ci è passato, saprà certamente come i «professionisti del filo spinato» - direbbe Carrère - quando scendono in campo fanno sul serio, scendono per fare un lavoro conciso e pulito, e di come un campo profughi sia qualcosa che «si sente eccome, che logora, che ossessiona, che divide, tracciando un confine non solo tra generosità ed egoismo, apertura e chiusura, tra persone istruite e sottoproletariato, quel sottoproletariato che ha trovato qualcuno ancora più disgraziato di lui da odiare.» Conoscerà l’ambiente di solidale impegno collettivo che si respira là, dove tra richiesta e aiuto, le forze più o meno indipendenti che continuano a garantire una sussistenza si prendono carico delle responsabilità e degli oneri che dovrebbero impegnare altri, altri professionisti. Ciò che dovrebbe differenziare questo tipo di professionisti dai volontari che operano attorno ad Idomeni è una diversa concezione di umanità. Il crimine più grave che l’Unione Europea sta commettendo non è lo sgombero di oggi e quello di domani, la deportazione, lo stoccaggio di persone in campi militarizzati o l’eventuale uso di forza -che poi, a ben vedere, dove li mandiamo, in Turchia, la forza la usano -, ma è quello che porta gli operatori e l’opinione pubblica - quella non contraria - a credere che promuovere un’umanità fatta “solo” di cibo, salute, docce e assistenza legale sia abbastanza. La maggior parte dei volontari che operavano a Idomeni sono stati indirettamente costretti a promuovere una linea del Keep calm and eat soup - citando un articolo di ieri di On the refugee trail - per continuare a poter accedere nei campi, di fronte alle possibilità, poi avveratesi, di rimanere tagliati fuori. Se da una parte i migranti fanno di tutto per ottenere la visibilità mediatica che necessitano per veicolare in modo più efficace la loro richiesta d’asilo che con i metodi previsti non viene ascoltata, dall’altra parte le loro azioni politiche vengono adottate come pretesto per tacciarli di violenza e conseguentemente respingerli, oppure limitando l’accesso ai volontari, logorando e sfinendo i migranti che a colpi di no, cercano altre soluzioni. E’ scontato che poi venga promossa la linea del keep calm and eat soup, ma di che cosa è fatta l’umanità? della semplice sussistenza fisica o anche da una situazione dignitosa? Che dignità c’è nel fango? Quanta dignità rimane a chi non viene accolto? Giustificare l’utilizzo dell’aggressività da parte dei migranti o legittimare metodi riottosi sarebbe rischioso, ma pensare che l’aiuto sia un mero assistenzialismo che non preveda una responsabilità politica personale e collettiva è imperdonabile. Limitarsi a portare cibo senza insistere per un cambiamento dell’approccio politico è una soluzione di ripiego e passiva. Deportarli in campi militarizzati, dove non possono avere risonanza mediatica, costringendoli forse a compiere azioni ancora più disperate, peggiori di quelle viste a Idomeni, è crudele. Piegare la libertà d’azione dei volontari è subdolo. Bisogna opporsi all’idea che, decenti o meno, questi campi o quelli d’oltre Egeo siano una soluzione accettabile. Queste persone mosse da fame di vita devono riuscire a cambiare il modo di fare umanità, dentro e fuori i nostri confini. Le ruspe che stanno sventrando Idomeni e i manganelli che invitano a salire sugli autobus sono il simbolo di quest’Europa che pone tutti davanti alla necessità di capire e decidere da che parte stare nei prossimi anni, alla luce che del fatto che accettare la deportazione vuol dire perdere la dignità, nostra e loro.