di Ambra Moser
Il 24 maggio la polizia ha messo in moto le ruspe dando il via alle operazioni di sgombero al campo di Idomeni, sotto lo sguardo compiaciuto della Fortezza Europa. Diverse migliaia di persone che da mesi premono sul confine greco-macedone sono una bella scocciatura, per non parlare di quella ferrovia picchettata di tende che ne è diventata il simbolo. A trasformarla in una mera questione di ordine pubblico c’è voluto un attimo, così l’area viene ripulita nell'arco di pochissimi giorni e i migranti ricollocati in campi militarizzati che sembrano essere stati allestiti in modo a dir poco frettoloso e approssimativo. Gli attivisti che stanno monitorando alcuni di questi campi governativi riportano che a diverse centinaia di persone, quando non si supera il migliaio, vengono fatte corrispondere poche manciate di bagni. Le docce, quando presenti, sono insufficienti. Il cibo e l'acqua pure. Nella fretta di sgomberare, ricordarsi che quasi la metà di coloro che popolavano Idomeni sono ancora bambini è sembrato un dettaglio irrilevante: ai neonati non viene garantito il latte, come ai più grandi è negato il diritto all’istruzione che i volontari indipendenti, come quelli del Centro Cultural, assicuravano. Quando viene riportata la presenza di medici, non se ne riscontra più di uno per campo, operativo solo durante il giorno. Dei fuochi che avevano caratterizzato le serate al campo di Idomeni non vi è più traccia. È vietato perfino cucinare autonomamente, in una condizione in cui il cibo è cattivo e insufficiente, come riporta Meltingpot. Non è consentito l'accesso ai volontari. Dispersi qua e là nei campi governativi a gruppi di centinaia, stremati da un'attesa logorante e sottoposti alle pressioni di un controllo quotidiano, i migranti spariscono nuovamente da quei riflettori che l'Europa aveva puntato sulla ferrovia bloccata. Chi ad oggi non ha ancora preso posizione in merito alla condizione dei rifugiati intrappolati nella tenaglia tra Grecia e Turchia, si dichiara scettico nei confronti dell'uso del termine deportazione. Si tratta di una paura dei termini “forti” che scaturisce dalla convinzione che accomodarsi nel mezzo sia la cosa più sicura e quindi più corretta da fare. Vi è una diffusa tendenza a preservare una sorta di equilibrio che sembra basarsi più sul rifiuto di determinati termini che su posizioni concrete. Delle non-posizioni che per la natura dei loro effetti sfociano in inconsce ma ben precise insolenze, essenziali contributi alla deriva xenofoba di alcuni governi europei. Quando non si tratta di totale passività, l'effetto più dinamico che questa zona di mezzo produce si risolve in un colpo al cerchio e uno alla botte: strattonarsi tra due fronti senza esporsi troppo per paura di schierarsi.
Forse i drammi degli anni duemila non sono considerati degni di abbozzare una pagina di manuale, forse questa realtà non è considerata sufficientemente crudele e drammatica per essere denunciata con determinazione. L'unica forma di lotta socialmente accettata si ritrova nelle agiografie degli eroi dell'assistenzialismo, paladini degli aiuti calati dall'alto, abilissimi nell'edulcorare la disgrazia con i sorrisi dei bambini. Se la presa di coscienza della deportazione in atto è una questione di numeri, e se la determinazione nella lotta dipende dal grado di drammaticità espresso da tali cifre, quante altre vittime dovrà mietere la Fortezza Europa prima di sbattere il naso contro un'opposizione politica cosciente, forte e compatta?