Un romanzo redatto da chi ha vissuto e sofferto la guerra in prima persona, da giovanissima, e che scrive per non dimenticare uno dei fatti più sanguinosi del conflitto balcanico, la strage degli abitanti della cittadina di Srebrenica. L’esperienza autobiografica della giovane autrice è riflessa in questa narrazione, che si divide tra Italia e Balcani e che descrive le pesanti eredità che quel conflitto ha lasciato.
Un atterraggio sulla luna, un allunaggio appunto, è ciò che vive il protagonista del romanzo dello scrittore rumeno Mihai Mircea Butcovan, che, catapultato in Lombardia, ha la sensazione di essere finito in un altro mondo. Le atmosfere, le sensazioni, le descrizioni che si hanno in questo diario un po’ atipico, in cui all’inizio di molti capitoli spicca l’assenza di data e luogo, sottolineata dall’autore con la dicitura «manca la data», trasmettono al lettore la sensazione di estraneità e sperdimento, smorzata sempre dalla vena ironica e burlesca che non abbandona mai la scrittura.
Sono testi parzialmente apparsi in italiano, alcuni editi per la prima volta subito dopo l'arrivo in Italia dell'autore, dalla 'benemerita' Associazione culturale -Centro di accoglienza “Ernesto Balducci” di Zugliano (Ud), creata da Pierluigi Di Piazza che è stato capace di vedere e di segnalare la presenza di un poeta in mezzo a quell'umanità che altri considerano massa informe di immigrati-extracomunitari-clandestini-criminali in nuce o conclamati.
Le poesie hanno come temi dominanti i problemi legati all’immigrazione. In esse si accenna alle difficoltà che questi cittadini affrontano nel loro percorso migratorio: lo sradicamento, la nostalgia, la solitudine, le aspettative spesso naufragate, le difficoltà di inserimento nel contesto sociale nuovo, il desiderio di realizzarsi dal punto di vista professionale, economico e familiare, i fallimenti, ecc. Problemi così drammatici dei quali la società civile del terzo millennio è testimone.
Il testo curato da Raffale Taddeo rappresenta qualcosa di più di un’antologia, nel senso che non si limita a raccogliere una serie di passi, che sia prosa o poesia, selezionati all’interno della ormai grande produzione di testi scritti dagli immigrati in Italia.
Un architetto iracheno racconta di come sia solo in Italia, lontano dalla patria e dalla famiglia che ha lasciato per venire a studiare in Europa. Abbandonato dalla moglie, conduce una vita in solitudine, senza credere nell’amore. Ma la passione che suscita in una ragazza marocchina, una povera clandestina prostituta, portata sulla sua strada dal caso, fa rinascere il calore nel suo cuore.
La raccolta di racconti curata da Laila Wadia, già autrice di numerose storie e di un romanzo, riunisce autori immigrati in Italia dalle più diverse parti del mondo sotto il segno della… forchetta.
L’idea che anche il cibo e la sua preparazione possano trasformarsi in momento di condivisione, in occasione di ricordo, in tentativo di sconfiggere il vuoto di sensazioni, odori e atmosfere appartenenti al passato di ciascuno attraversa e sostiene il testo, che tuttavia non scivola in romanticismi banali e strappalacrime.
«Con gli anni ho capito che il signor Zacchigna non era un tipo malvagio, al contrario. Non è da tutti affittare le case agli extracomunitari. Molta gente non si fida. Pensano che il passatempo preferito degli immigrati sia distruggere le dimore per poi scappare via senza pagare l’affitto».
Questa una delle frasi che si incrociano nelle pagine di apertura del primo romanzo di Laila Wadia, scrittrice indiana che vive e lavora a Trieste e che da qualche anno ha iniziato a dedicarsi alla composizione in lingua italiana.
Il romanzo chiude il ciclo di puntate radiofoniche del programma Cammei. In onda il 26 giugno alle ore 16.00 sulle frequenze della Rai regionale.
Si tratta di 15 racconti che dipingono molti personaggi dell'immigrazione in Italia, provenienti da diversi paesi.
«Scrivere, vuol dire sognare, visitare luoghi lontani, fare compagnia a persone sconosciute, dialogare, abbattere i muri che ci dividono, superare gli ostacoli che c’impediscono di capirci l’un l’altro. Poi, nel mio caso, significa soprattutto ritrovare, e quindi ricomporre un’esistenza che, ad un certo punto, mi è sembrata annichilita» (p.15).